Redenzione? [atto 2°]

Paese del Vento

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  1. Anselmo
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    Continua da QUI.
    So che non andrebbe postata in questa sezione, essendo una PQ ambientata nel deserto di Suna. Ma fa parte di una catena di quest che si svolgerà tutta in "Altri Luoghi", solo questo piccolo episodio sarà ambientato nel Paese del Vento. Mi dispiaceva postarlo da un'altra parte. Postandolo qui viene tutto più ordinato.


    -[ X ]-


    Quanto ero piccolo, debole ed insignificante rispetto a ciò che mi circondava. Meno di un germe che si nutre delle cellule morte di un'animale appena abbattuto, germe che viene a sua volta divorato da un altro predatore sopraggiunto per strappare pezzi di carne dalla sua preda, ingoiandoli interi. Tutta la superiorità della razza umana lì, nella natura, perdeva ogni sua pomposa connotazione. Arrancavamo giorno dopo giorno, nutrendoci di ogni piccolo scarafaggio che riuscivamo a catturare, succhiando ogni microscopica particella di umidità che riuscivamo a scovare, sfruttando ogni triangolo di ombra che le rare sporgenze rocciose ci offrivano. Ad ogni passo eravamo morsi dalla consapevolezza che sarebbe bastata anche solo un po' di sfortuna per far si che quel giorno non avremmo trovato quel minimo quantitativo di acqua indispensabile per farci andare avanti, o quel magro pasto essenziale per sopravvivere fino al giorno dopo. Bastava soltanto un pizzico di sfortuna. Saremmo quindi morti, crollando al suolo sotto il sole impietoso del deserto. Ben preso le stesse creature che giorno dopo giorno ammazzavamo per sostentarci, avrebbero fatto banchetto dei nostri corpi denutriti, riducendoci a semplici mucchietti d'ossa esposti alle intemperie. In tutto ciò, dov'era la nostra supremazia quali esseri umani? Morti ammazzati dalla propria debolezza, come qualsiasi preda che cade tra le grinfie del suo predatore. Non c'era niente di migliore in noi rispetto a qualsiasi altra creatura che era stata capace di ritagliarsi la propria nicchia nel mondo. Come qualsiasi insetto, anche io e Imai eravamo soggetti ai pericoli della natura. E come qualsiasi insetto, la nostra morte sarebbe stata significativa soltanto per la creatura che si sarebbe saziata dei nostri corpi, almeno finché non gli fosse tornata la fame. A quel punto anche lei ci avrebbe dimenticati. Quante cose perdevano di senso in quel nuovo mondo, e quante altre ne acquistavano così tanto da divenire il fulcro di ogni minuto della nostra sopravvivenza.
    Che stupido era l'uomo a pensare di poter piegare la natura come aveva fatto con tutte le altre creature che la abitavano. Essere il più potente tra gli ospiti non ti rende migliore del padrone. In realtà eravamo soggetti alla volontà della natura proprio come lo erano tutti gli altri esseri. Un volontà che si distingueva da quella di qualsiasi animale, perchè era una volontà totalmente cieca: la natura non ha né un'intelligenza né un istinto a guidarla. E' pura e semplice casualità, un capriccio immotivato. E' impossibile da comprendere, men che meno da controllare. L'uomo si sente al sicuro dentro le proprie case, ammassate tra loro a formare Villaggi, come se ammucchiarsi in angusti alveari lì rendesse più forti. L'umano si sente parte di qualcosa che nella complessa mentalità guasta che gli turbina tra le pareti della scatola cranica, paragona al tutto. Secondo egli, il singolo individuo è importante, si, ma è l'intera società il vero dio, perchè non c'è niente al di sopra di essa. Quale persona ha mai concepito qualcosa che potesse essere riuscito meglio della razza umana? Nessuno. Ma la verità era un'altra, mi era bastato poco per scoprirlo. La verità è che tutti gli artifici umani, i Grandi Villaggi Ninja, le nazioni, le strutture, sono semplici croste sulla sconfinata entità che è la natura. In qualsiasi istante, spinta da non si sa cosa, ella più liberarsene come un uomo d'affari farebbe della forfora accumulata sulle spalline del suo costoso completo firmato. Può scrostarsi, mandando tutta la superiorità umana in rovina, in un'istante che per lei, per la natura, è insignificante. Può spazzare via l'intera vita, cancellando quel che crediamo essere alla base di tutto. Poi, per capriccio, può lasciare che la vita risorga e, sempre per capriccio, sopprimerla ancora ed ancora. La verità e che noi... non siamo... niente.
    Io. Io non sono niente! Questo pensai, nel momento in cui lanciavo un ramoscello secco nel fuoco e lo osservavo crepitare, mentre veniva annichilito dalle fiamme danzanti nel falò. Lì, seduto con le braccia avvolte attorno alle ginocchia, avvolto nella mia cappa bruciata dal sole mentre cercavo di stare il più vicino possibile alle fiamme danzanti che tenevano lontane il freddo desertico, il buio della notte ed i suoi predatori dagli occhi luminosi; era stato in quel momento che i miei pensieri si erano staccati dalla microscopicità del mio corpo per indagare l'inafferrabile infinito. Lanciai un'occhiata ad Imai, dall'altra parte del fuoco, interrompendo il flusso di pensieri per chiedermi se anche lei stesse pensando la stessa cosa. Ma le sue profonde iridi vermiglie si erano già ritirate dietro le palpebre della dimensione onirica. Quante lune erano sorte e tramontate dalla notte della nostra partenza? Sforzandomi ricordai l'immagine di un "17" tracciato con l'indice nella sabbia, in modo da rimembrarmene la mattina dopo. Avevo mai tracciato un diciotto? Non ne ero sicuro. Doveva essere a quel punto che avevo perso il conto. Quelli erano stati i giorni più duri, i giorni del "o crepo ora, oppure vivo per sempre". Poi le cose erano andate migliorando nel giorni successivi, leggermente. Non avevo più avuto sentore che la morte mi attendesse dopo ogni passo compiuto, pur consapevole che bastava comunque poco per lasciarci le penne. Inoltre avevo cominciato ad abituarmi all'idea che il chakra -il mio splendido, amato chakra- era del tutto inutile. Avevo iniziato il viaggio credendo stupidamente che mi sarebbe bastato evocare una delle mie creature lignee per avanzare speditamente. Che illuso! Certamente mi permettevano di coprire anche centinaia di chilometri in un giorno, ma alla fine di questo sarei rimasto talmente sfinito e privo di chakra, il quale avrei impiegato giorni di riposo per recuperarlo. Solo che, essendo nel mezzo del deserto, non v'era modo di riprendersi. Sarei morto. Per fortuna avevo capito in tempo che a conti fatti, avanzare a piedi mi avrebbe portato più lontano. Come si suol dire, chi va piano, va sano e va lontano. Ed un'altra convinzione di cui mi ero ricreduto dopo poco tempo era quella del potermi procurare l'acqua tramite le mie abilità di Shinobi. Si, potevo ricavare un bicchiere d'acqua dall'umidità dell'aria persino in un luogo arido come quello. Peccato che ciò mi costasse più energie di quante non ne recuperassi bevendo l'acqua così ottenuta. E poi si trattava d'acqua pura, sterile, che non ha radici nel terreno da cui trarre nutrimenti, quindi inutile al corpo umano; la scienza insegna. Ed infine, nel deserto, singole prede capaci di sfamarti non ne esistevano. Eravamo costretti a mangiare qualsiasi cosa si muovesse che incontravamo lungo il cammino, per piccola e disgustosa che fosse.
    Mi tastai il costato, percependo al tatto ogni singola fibra muscolare e, sotto di esse, le costole delineate come pioli di una staccionata. Avevo perso ogni grammo del grasso che fino a poco tempo prima aveva dato una parvenza di benessere al mio fisico. Magro, sporco, capelli secchi ed ispidi e barba a rendere la calura del giorno ancor più insopportabile, anche se nel gelo notturno era un vantaggio non da poco. Non ero più l'arma perfetta dalla potenza impetuosa ed i riflessi impareggiabili che incarnavo prima di partire. Ora mi sentivo debole, perennemente stanco e sempre affamato. Eppure nel contempo mi sentivo più leggero e libero, come se mi fossi tolto di dosso un pesante abito impregnato d'acqua. Ma soprattutto, mi sentivo in equilibrio con ciò che mi circondava, come se facessi parte di una catena in cui ogni maglia è collegata a tutte le altre, e non solo alle due più vicine.
    Con questi pensieri ad occuparmi la mente, le palpebre cominciarono a farsi pesanti. Raccolsi tutti i ramoscelli rimanenti e li gettai nel fuoco, scatenando una colonna di scintille che illuminarono di rosso alcuni metri della sabbia che mi circondava in ogni direzione. Quindi mi coricai sulla nuda sabbia, rannicchiato sotto il mantello, e chiusi gli occhi per raggiungere Imai nel mondo dei sogni. Era la ventinovesima notte trascorsa nel deserto.
     
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  2. Anselmo
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    Trentesimo giorno. Quel viaggio verso Sud pareva interminabile. Tutti i giorni si susseguivano uguali tra loro, tanto da rendere impossibile ricordare cosa avessi fatto il giorno precedente, o quello prima ancora, o quanto tempo fosse trascorso da quella sera fortunata in cui la natura ci aveva regalato per cena un sostanzioso e succulento avvoltoio del deserto. Un vero lusso, considerando il genere di scarafaggi, scorpioni e serpenti che eravamo soliti catturare. L'avvoltoio era stato abbastanza ingenuo da crederci morti, ed aveva volato basso per accertarsene. Avevo reagito prontamente, trafiggendolo con una singola, affilata lingua di legno. Una volta, chissà quanto tempo prima, ero stato capace di dar vita a mastodontiche creature lignee; ora creare quel debole ed esile fuscello mi aveva lasciato boccheggiante e privo di energia. Era stata Imai a cuocerlo per me. Ne era valsa la pena.
    Non ricordavo quanti giorni fossero passati dal quel pasto delizioso, ma mi costrinsi immediatamente a non pensarci. La fame mi corrodeva le viscere, fantasticare sul cibo era una tortura. Voltai il capo indietro, lanciando uno sguardo fugace sulla linea tracciata dalle impronte del mio incedere, che ondeggiava sulla superficie ondosa del deserto, fiancheggiata ad ogni passo da una seconda fila di impronte, quelle di Imai. Quindi spostai lo sguardo su di lei, e nello scrutare il suo capo chino sotto il pesante cappuccio ebbi per un istante la visione di com'era stato il suo volto prima che partissimo. Fui sconcertato, Imai era quasi irriconoscibile. Le guance scavate e la pelle rovinata dalle intemperie le avevano sottratto quella sua delicata bellezza che aveva catturato le mie attenzioni fin dal primo istante. Del suo aspetto accattivante restavano solo gli occhi, d'un rosso profondo come pozzi colmi di rubini, ora resi ancor più evidenti dai lineamenti secchi del viso denutrito. Quando era successo? Com'era possibile che lei si fosse ridotta in tale stato senza che me ne accorgessi? Ma poi intuii che vedendo la fame aggredire il suo corpo giorno dopo giorno, il mio occhio doveva essere stato incapace di cogliere il lento decadimento della sua bellezza.
    Imai si accorse del mio sguardo e rispose con un debole sorriso, per poi tornare a fissarsi i piedi strisciare nella sabbia. Un sorriso sconsolato e privo d'emozione. Le labbra spaccate dicevano una cosa, ma gli occhi tutt'altra. Mi chiesi se anch'ella riconoscesse in me l'aspetto di un cane randagio. Mi portai una mano al volto, incontrando immediatamente la barba ispida che mi impedì di carezzarmi la pelle. I polpastrelli induriti tastarono gli zigomi sporgenti, le tempie profonde come crateri, le labbra ruvide e le palpebre basse per il peso della stanchezza. Persino le cicatrici, quella rete di solchi che mi aggrediva la parte destra del volto, non rispondeva più alle mie dita, nascosta sotto un muro di peli ruvidi e di capelli bruciati dal sole, che mi pendevano sul volto come i licheni pendono dai rami di un'antica foresta. -Per quanto ancora...?- Oramai avevo perso il conto del numero di volte in cui mi ero posto quella domanda. Sarebbe durato finché sarebbe durato, questa era l'unica, vera realtà. Sarebbe durato finché lungo il cammino non mi fossi lasciato alle spalle anche tempo e spazio, oltre ai ricordi di me stesso e del mio mondo. A quel punto il lungo viaggio sarebbe terminato così come era iniziato: polvere alla polvere.
    Stavo per distogliere lo sguardo dalla mia compagna per tornare ad osservare la monotona linea dell'orizzonte che avrebbe svuotato la mia mente da ogni pensiero, come accadeva sempre. Ma lei si fermò, lo sguardo fisso davanti a se, dilatato in un espressione di puro stupore. -Cibo? Ha visto del cibo? Oppure acqua... Forse vuole solo riposare.- Tre ipotesi, le uniche che fui capace di formulare, perché in quel deserto erano le sole cose che avessero importanza. Talmente tanta da determinare la nostra sopravvivenza in ogni singolo istante.

    Che hai piccola, vuoi...

    Guarda là!

    Mi interruppe sollevando un indice tremante verso di me. Abbassai lo sguardo sul mio petto, ma poi capii e mi voltai, dirigendolo lungo il deserto aperto. Lì, stagliati contro la tremula linea dell'orizzonte, tre figure appena visibili rappresentarono per lunghi secondi tutto il mio mondo. -Per... persone, uomini, umani... degli umani!- Si, tre individui umani. Dopo tutto quel tempo trascorso tra sassi, sole battente, creature non più grandi del mio pugno, sabbia, tantissima sabbia e nient'altro, dopo tutto ciò, finalmente qualcosa di... qualcosa di civile. Qualcosa che sapesse parlare, che sapesse sorridere, che sapesse porgere la mano. Uomini! Creature umane!
    Ebbi un vertiginoso tuffo al cuore, e per un istante di pura gioia immaginai me stesso correre loro incontro, stringere le loro mani vive, rispondere ai loro sorrisi accoglienti. Ne fui confuso, perché in quei giorni di spietata sopravvivenza la mia mente inconsciamente aveva cominciato ad adattarsi, rendendomi più animale nelle necessità, nei comportamenti e nella ragione. Pensieri che normalmente avrebbero occupato la mia giornata, ora mi parevano futili, qualcosa che non mi appartenesse, idee estranee al mio essere. E così anche il mio spirito sociale. Avevo smesso di pensare al mondo civilizzato, che mi pareva come qualcosa di estremamente lontano e celato dietro una cappa di contagiosa malasanità. Pericoli da cui tenersi alla larga, come fanno gli animali. Quindi ne fui confuso, perché mai avrei potuto prevedere una simile reazione nell'avvistare delle semplici figure di cui non conoscevo nemmeno il volto. Scoprii di essere molto più umano di quanto non avessi creduto...
    Volsi nuovamente lo sguardo verso Imai, che però non condivise la mia trepidazione. Sbatteva le palpebre, un espressione dubbiosa che mi ricordò quante altre volte i prodigiosi miraggi del deserto ci avevano colmato di false speranze. Ma questa volta era diverso.

    Sono veri Imai, me lo sento! Ma dobbiamo stare attenti...

    Sorpresi persino me stesso nel pronunciare quelle parole. Il buonsenso quindi non mi aveva ancora abbandonato, anche se sembrava presentarsi ad intermittenza, agendo di propria sponte come fa l'istinto.
     
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  3. Anselmo
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    Dobbiamo stare attenti...

    Figurai il mio volto, quello che mi aveva identificato come Nonubu Senju, affisso sulle bacheche dei Villaggi, appeso negli uffici dei Kage, schedato nelle cartelle delle divisioni Black Ops. Con una stretta al petto immaginai poi che alla mia destra, presentato forse con caratteri meno appariscenti, vi fosse il ritratto di Imai. -No, sarebbe impossibile. Nessuno sa di noi, nessuno ci ha visti. Per loro Imai è soltanto sparita. E poi non la riconoscerebbero...-, pensai.

    Anche se fossero sulle nostre tracce, difficilmente ti identificherebbero. Dovrebbero guardarti molto da vicino... e conoscerti molto bene.

    Distolsi lo sguardo con una smorfia di divertimento: dimenticavo che anch'io, come lei, dovevo risultare irriconoscibile. Ma tornai serio non appena le tre figure in avvicinamento catturarono nuovamente la mia attenzione. Erano oramai emerse dal muro d'aria calda che emanava dalla superficie bollente del deserto, rendendo qualsiasi forma in lontananza fumosa e sfuggente.

    Cosa facciamo?

    Domandò Imai con la voce rotta dall'ansia. Per un'istante mi sentii spaesato, perché era tremendamente raro che quella ragazza si facesse sopraffare dall'inquietudine. Erano il deserto e la fatica ad averla ridotta in quelle condizioni, ne ero certo. Non risposi; sapevo che avrei dovuto rassicurarla, che in una situazione simile doveva sapere di poter contare su di me. Ma anch'io soffrivo della stessa stanchezza, e dimostrarsi forti quando ci si sente fragili come la lastra di ghiaccio che ricopre un lago riscaldato dal sole primaverile, non era facile. Non fui capace di rispondere, ma quando la mia mano sparì silenziosa nella pesante cappa di iuta tinta di nero, scivolando sull'impugnatura della lama in essa celata, non servì spendere alcuna parola: dovevamo essere pronti a combattere. Per sopravvivere...

    [...]



    Non ci sono più barriere da attraversare...

    Il mio sguardo scivolò su di lui, quello che aveva parlato. La sua voce profonda e malinconica coprì la mia fronte bollente d'un gelido strato di sudore, a dispetto del caldo torrido. Calò un silenzio ansimante, che nessuno volle rompere perché tutti sapevamo che presto avrebbe parlato ancora. Era certo, stava scritto nella cadenza dell'ultima parola pronunciata. Vagai con lo sguardo sulle sue vesti di stoffa grezza, povere e poco appariscenti, ma reduci di mille traversate ed ancora integre. Come le mie. Poi incrociai il suo sguardo. Era strano: quegli occhi neri nel volto scuro erano colmi di tedio, pura e semplice noia, come se le parole appena pronunciate e quelle che stava per articolare costassero al suo spirito enormi fatiche, eppure la sua voce mi era parsa così carica di commozione, quasi fossero le parole che un uomo sussurra alla sua amata sul letto di morte, sapendo che saranno le ultime ad essere udite. Un paradosso. Ne fui turbato. Non distolsi lo sguardo, ma con la coda dell'occhio vidi il volto dell'altro uomo, quello alla sua sinistra, deformarsi in un sorriso. Un autentico nonno che sorride benevolo. Il terzo invece, ai limiti del mio campo visivo, era serio e corrucciato, e pareva l'unico a comportarsi secondo principio. Quella situazione celava qualcosa di sbagliato.

    Tutto ciò che ho in comune con l'incontrollabile e la follia, la depravazione e il male, tutte le mutilazioni che ho causato e la mia totale indifferenza verso di esse; tutto questo ora l'ho superato.

    Deglutii e guardai Imai, che ricambiò confusa. Il vecchio aveva chinato il capo, scosso da risa malamente soppresse, risa che erano mute alle mie orecchie. Ma colui che parlava non aveva occhi che per me, e la sua inspiegabile afflizione mi scavava nel petto. Provai l'improvviso desiderio di retrocedere fisicamente per sottrarmi a quell'abbraccio invisibile, ma non volli dimostrarmi spaventato.

    La mia pena è costante ed affilata, e io non spero per nessuno un mondo migliore, anzi voglio che la mia pena sia inflitta agli altri, voglio che nessuno vi possa sfuggire.

    Cominciai a ribollire per la rabbia, perchè era l'unica ovvia reazione a quelle parole prive di senso, a quell'uomo privo di senso, ed all'insensato turbamento che mi scuoteva.

    Ma anche dopo aver ammesso questo non c'è catarsi: la mia punizione continua a eludermi, e io non giungo a una più profonda conoscenza di me stesso. Nessuna nuova conoscenza si può estrarre dalle mie parole. Questa confessione... non ha... nessun... significato...

    E si spense come un apparecchio cui è stata strappata l'alimentazione. Lo sconosciuto ed il suo gravoso fardello parvero sparire ai miei sensi, tutti men che la vista, perchè restò immobile difronte a me. Ma non lo percepii più, la sua coscienza si ritrasse dall'ambiente. Fu come se lui e la sua presenza dilagante fossero morti in quell'istante, senza battere ciglio. Non avrebbe più parlato, mai più. Ne ero certo come prima ero stato certo avesse ancora qualcosa da dire. Il come mi era ignoto. Tornai improvvisamente a percepire il lieve alito di vento caldo che mi danzava tra i capelli, il sole battente sulla pelle, il sudore colarmi lungo la tempia, tracciando una linea della polvere che mi incrostava la pelle. Ed improvvisamente la mia attenzione fu catturata dalla fragorosa risata del vecchio. Ora non si tratteneva più e, rivoltando il capo all'indietro, gridò al cielo la sua ilarità. Scossi il capo e feci per parlare -stranamente ora scoprivo di esserne nuovamente capace- ma mi interruppe.

    Non fateci caso viandanti, è soltanto un po'...

    E si puntò l'indice alla tempia, facendolo ruotare mentre incrociava gli occhi in un esagerata espressione da folle squilibrato. Certo, era ovvio, colui che aveva parlato altro non era che un pazzoide con qualche ingranaggio mancante. Eppure la cosa non mi rincuorò. gli lanciai un ultima occhiata, ma il suo volto impassibile rimbalzò ogni mio tentativo di scrutare nella sua mente. Tornai dal vecchio:

    Cosa... Chi siete?

    Esitai nel domandare. Shinobi, Mukenin, cacciatori di taglie o semplici viaggiatori... chiunque essi fossero non mi interessava davvero, l'unica cosa importante erano le loro intenzioni. Ma come domandarglielo senza tradirci? Quindi non lo feci, non direttamente. Ma mi pentii di aver esitato nel parlare. Se non erano degli sprovveduti, avrebbero intuito che mi sentivo minacciato. E fu così, con ogni probabilità. Lo lessi nell'impercettibile contrazione del suo volto: aveva capito qualcosa. La mia mano si strinse più forte attorno all'impugnatura del Wakizashi, pronto in qualsiasi istante ad essere estratto dalle vesti. Il vecchio mi squadrò per qualche istante, il sorriso incrinato da un lieve dubbio. Ma poi lo allargò, ed il volto gli si illuminò ancora una volta di sincera benevolenza:

    Soltanto dei semplici pellegrini, proprio come voi.

    Non avevo mai detto di essere un pellegrino, ma colsi il suo ammiccare complice ed annuii: loro non avevano intenzione di indagare sulla mia identità, ed io non avevo intenzione di indagare sulla loro. Ognuno avrebbe continuato per la propria strada e...

    Quanto manca alla costa?

    Ruotai il capo verso Imai, che respinse il mio rimprovero con severità. Non potevo comunque biasimarla, anch'io non vedevo l'ora di lasciarmi alle spalle quel deserto maledetto. Era stata la sua stanchezza a parlare, a spingerla verso l'azzardo. Ero sicuro che anche lei avesse colto l'aura di insidia che quel gruppo emanava. Eppure aveva deciso di rischiare, di rivelare a quegli uomini dove eravamo diretti. Era lo stesso rischio che io avevo corso decidendo di andare loro incontro. La privazione ci stava degradando a creature stolte.

    Poche ore di cammino, ma nelle vostre condizioni...

    L'uomo si fece serio, e ci squadrò dubbioso. Dovevo apparire più deperito di quanto non credessi. Per un'istante provai disagio, quasi... paura. Ero debole, e lui se ne era reso conto. Il suo volto rugoso trasudava vecchiaia, ma sotto le pesanti vesti riconoscevo le forme di un corpo forte e massiccio. -Se fosse un Ninja sulle nostre tracce, a questo punto agirebbe, e mi troverei in manette. Un cacciatore di taglie invece mi ucciderebbe. Con un ladro invece potrei...-

    Posso offrirvi acqua e cibo. Io e i miei avevamo giusto intenzione di accamparci per un pranzo veloce.

    L'improvvisa affermazione del vecchio mi lasciò senza fiato. Fui sopraffatto dalle emozioni, come un cane che accoglie il suo padrone dopo giorni d'assenza. Quell'ospitalità, quella gentilezza, dopo quell'interminabile periodo di vita brada. E la parola "pranzo"... Lo stomaco cominciò a reclamare ciò che gli spettava con tremende scariche di fame, ma a farmi digrignare i denti furono le lacrime. Lacrime che scivolarono invisibili lungo le mie guance, perchè ero troppo disidratato per permettere al mio corpo di sprecare acqua in tal modo. Stavo piangendo. Dentro di me ero preso dallo stimolo irrefrenabile del pianto, e non riuscivo a capacitarmene. Lo stesso stupido impulso che mi aveva spinto ad incrociare il cammino di quegli individui per poter rivedere un volto vivo ed umano nonostante il pericolo che ciò poteva significare, ora aggrediva ogni esausta cellula del mio corpo spingendomi ad accettare. Ma tornò quella vocina a ricordarmi chi ero stato prima di partire, quella vocina che ripeteva il mio nome obliato, suggerendomi che il mondo mi conosceva come traditore, fuorilegge, criminale. Un uomo espulso dalla società, ma non solo. Un uomo braccato dalle autorità di tutto il Mondo Ninja. Quell'invito poteva rivelarsi un'insidiosa trappola tesa da un vecchio che, consapevole di non potermi sopraffare in combattimento, cercava di raggirarmi. Non avevo più amici, solo nemici, non dovevo dimenticarlo. Snudai un centimetro d'acciaio sotto la veste, pronto ad accogliere qualsiasi reazione il mio rifiuto avrebbe causato e...

    G-Grazie...

    Il sussurro di Imai mi colpì come un maglio al centro della schiena. Come poteva fidarsi di uno sconosciuto qualunque? Voleva forse trascinarmi con lei verso la rovina? Ma bastò uno sguardo verso la ragazza per farmi rinsavire: -Egoista... sono un maledetto egoista. Lei non ce la fa più, oramai ha ceduto, non posso più pretendere niente. Se è pronta ad accettare persino la mia vita, oltre alla sua, significa che ha già passato da tempo il limite.- Provai una stretta al cuore immaginandomi di proseguire senza di lei, e ad un tratto mi accorsi che la mente mi stava tradendo quanto il corpo, perchè non ero mai stato così paranoico. L'idea mi spaventò...

    Si, non mangiamo un vero pasto da...

    La voce mi si spezzò, ma il vecchio non vi fece caso, o forse non volle farlo. Con un sorriso allegro fece un cenno ai suoi compagni.

    Preparate un fuoco e montate il parasole, si mangia!

    [...]


    -[ X ]-


    Nonubu, eccola là, Kaishi! Il vecchio di ieri non mentiva!

    Alzai lo sguardo sulla figura di Imai, un impronta nera nel cerchio di fuoco che tramontava all'orizzonte. Il braccio teso ad indicare oltre il costone roccioso che ci divideva dalla città portuale, l'altra mano portata alla fronte per riparasi dal sole. Mi fermai per qualche attimo ad ammirarla e sorrisi divertito: era bastato un singolo vero pasto ed una lunga dormita per far tornare Imai la donna che conoscevo.
    Allungai il passo e scalai con qualche rapido balzo lo sperone di roccia rossa, raggiungendo Imai.

    Ti ho già detto di non chiamarmi più in quel modo.

    La rimproverai, ma senza troppa convinzione. Il mio braccio le si avvolse attorno alla vita e la trassi a me.

    E' ora che ti trovi un altro nome, caro mio.

    Va bene, ma non stasera.

    Questa sera no...

    Confermò con un mormorio assorto, poggiandomi il capo sulla spalla. Ed assieme assistemmo allo spettacolo che la morte del sole donava all'umanità quotidianamente. E non parlammo più. Ed i nostri occhi già solcavano le onde del Mar della Vipera, ansiosi che quel giorno terminasse, e che con esso terminasse la nostra vita nel mondo conosciuto come il più grande campo di battaglia della storia dell'esistenza, dove gli Shinobi si affrontavano e morivano ogni giorno, combattendo per qualcosa che non aveva ne consistenza ne significato. E ci abbracciammo baciandoci sul costone di roccia rossa, immobile come la sottile linea rossa che faceva da confine tra il passato da cui fuggivamo ed in futuro pronto ad accoglierci.

     
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    Scusa il ritardo ma ho ritenuto opportuno leggere anche l'atto 1. Sei bravissimo, prenditi il massimo!
     
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