Keep the earth below

[Personal Quest]

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    Inverno dell'anno 17 d.Z., grandi foreste tra Ishivar ed il Continente Occidentale...



    Mi assicuri che uccidere questo animale servirà a sfamare della gente?

    dIEzCIH
    Sussurrai con un filo di voce al mio Sensei, che mi affiancava sullo scomodo giaciglio ad una decina di metri da terra. Il sibilo della mia voce si perse tanto rapidamente nel fruscio delle chiome d'albero mosse dal vento attorno a noi, che temetti di non esser stato udito. Quindi ruotai il capo in direzione di Ren, e lei annuì spazientita.

    Si, te lo prometto! La piccola comunità isolata a cui porteremo la selvaggina è carente di cacciatori, hanno bisogno dell'aiuto dalla città.

    Hm...

    Risposi con un cenno soddisfatto del capo, e tornai a perlustrare con lo sguardo il sottobosco che ammantava il suolo ad una trentina di piedi sotto di me. Io e ed il mio Sensei giacevamo tra i rami di quell'albero, lontani dal terreno sottostante, oramai da due ore; potevo affermarlo con una certa sicurezza dai pollici che il sole, appena visibile tra le foglie mosse dal vento, aveva sottratto tra se e l'orizzonte. Io con il Tomahawk ed il pugnale stretti nelle mani tremanti per il freddo, lei rannicchiata accanto a me con le braccia nascoste nella spessa pelliccia d'orso che la ricopriva da capo a piedi, attendevamo con pazienza sempre meno tenace l'affacciarsi di una qualche creatura della foresta abbastanza grande da poter sfamare un manipolo di famiglie.

    E comunque si suppone che voi insignificanti Dohanos seguiate gli ordini dei vostri maestri senza far domande.

    Si lamentò in un sussurro Ren senza mostrare vera convinzione in ciò che lei stessa pronunciava. Replicai cercando di parlare a voce ancor più bassa:

    Mi è stato insegnato che va serbato il più profondo rispetto per la vita.
    "Nessuna vita è senza valore, nessuna morte accade invano.", queste le parole con cui mio padre e mia madre mi hanno cresciuto prima che il vostro mondo me li portasse via.

    A dire il vero non era solo alle parole di mio padre che stavo pensando: tutta quella situazione mi rievocava nella mente la mia intera famiglia. Era con il cuore dolorosamente lacerato che ricordavo le lunghe battute di caccia affiancato da Pà e Naira, la mia sorellina, ansiosi di donare la preda uccisa alla cucina sapiente di Mà. A quel tempo pensavo che non esistesse al mondo niente di più divertente ed eccitante che rincorrere un capriolo per i boschi fino a spingerlo in trappola per poterlo abbattere, mentre ora eseguivo quel compito con il petto colmo d'inquietudine. Eppure ricordai che, nonostante quand'ero giovane lo vedessi come un gioco, mio padre era sempre riuscito a comunicarmi la sacralità del gesto della caccia. Credevo ancora nel...


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    ~ X ~



    Un movimento improvviso attirò la mia intenzione, interrompendo il flusso dei miei pensieri. Erano due daini, un maschio bello grosso ed una femmina. Entrambi avanzavano lentamente verso l'albero su cui eravamo appollaiati, i musetti umidi dal naso scuro e lucente che fiutavano il sottobosco in cerca di cibo. Non c'era fretta di attaccare. Attendere il momento giusto era la chiave del successo. Dovevo solo aspettare che almeno uno di loro fosse a portata di salto, e che ci fosse una linea di tiro pulita sull'altro. Nell'attesa fremente, mi concentrai sul mio respiro, forzando un ritmo calmo e rilassato, in modo che l'affanno non tradisse il mio nascondiglio. I minuti che seguirono parvero ore, lunghe ore di pura concentrazione. La mente vuota, finalmente, dopo tanto tempo... Non provare niente, anche se per poco tempo, era come godere del riposo più dolce mai vissuto. Poi il momento terminò, e tutto si fece maledettamente rapido: la femmina era esattamente sotto di me, il maschio spuntava parzialmente da dietro un tronco più distante. Sollevai la mano che impugnava il Tomahawk e, tracciando in aria un arco fulmineo, lo sferrai verso il maschio. L'arma roteò vibrando nell'aria terminando la sua corsa sul ventre dell'animale, dove si piantò in profondità con un tonfo secco. Nel mentre io mi ero già lanciato come un gufo che plana silenzioso spalancando gli artigli sullo scoiattolo ignaro. Atterrai sulla femmina, che aveva appena fatto in tempo a sollevare il capo verso il suo compagno. Mi avvinghiai con il braccio libero al suo collo ricoperto di morbida pelliccia, inchiodando l'animale a terra sotto il mio peso, mentre con il pugnale d'osso segavo pelle, carne, muscoli, vene, tendini e trachea della sua gola. Agonizzò giusto per un'istante, prima di crollare privata della vita. Senza perdere un attimo sollevai lo sguardo verso l'altro daino che già si era dato alla fuga. Non avrebbe fatto molta strada con quel Tomahawk piantato nel ventre, ma mi lanciai comunque in un frenetico inseguimento, per terminare il più presto possibile le sue sofferenze. Lo raggiunsi con una decina di falcate e serbai anche a lui lo stesso fato: gola sgozzata da parte a parte.
    Quando l'ultimo debole battito cardiaco rimbombò contro la lama che tenevo stretta in pugno, estrassi il pugnale dal collo fradicio di sangue del daino. Mi sollevai in piedi, lo sguardo basso ed il fiatone, dovuto non tanto alla fatica di quella rapida azione, ma piuttosto alle forti emozioni che essa aveva risvegliato in me. Tutto fu improvvisamente silenzioso, come se l'intera foresta si fosse spaventata. Strinsi il piatto della lama tra pollice ed indice e, scorrendo, lo ripulii del sangue che lo imbrattava, per poi riporlo nel suo fodero alla cintola. Quindi mi abbassai, afferrai manico del Tomahawk, posi un piede sul ventre della bestia e con uno strattone estrassi l'arma dal suo corpo ancora caldo e morbido. Trascinai il daino accanto alla sua compagna defunta. Ren balzò giù dalla nostra postazione, atterrandomi accanto in una pioggia di foglie rigide per il freddo.

    Avanti moccioso, sbrigati con i tuoi riti che abbiamo della strada da fare!


    ~ X ~


    Le scoccai un'occhiataccia, cercando il modo più diretto ed efficace di spiegarle che non si trattava di "riti", ma decisi di lasciar perdere e mi inginocchiai davanti alle due creature immobili. Con un brivido la mia mente fu invasa dai ricordi dell'ultima battuta di caccia assieme a Naira ed a mio padre. Esattamente come aveva fatto la mia sorellina, poggiai le mani sui ventri immobili dei daini. Nel silenzio delle nostre voci, i rumori della foresta ci accerchiarono ed in essi sprofondammo. Fruscio di foglie nel vento, furiosi richiami appena udibili di bertucce distanti e cinguettii di uccelli in cerca di cibo. Lo sporadico scricchiolare dell'anima legnosa ed antica degli alberi attorno a noi, e niente più che il nostro respiro ancora un po' affannato. Chinai il capo e rivolgei i miei pensieri agli spiriti dei daini, mentre lasciavano per sempre quei luoghi di verde pace che erano stati la loro casa per molti anni mortali, per varcare le soglie dell'eterno.

    Sono dispiaciuto di avervi uccisi, compagni. Onoro la vostra innocenza, la vostra purezza, la vostra gentilezza...

    Le parole parvero circondare le creature defunte ed assorbirsi nella terra, a testimonianza del luogo della loro morte. Come Naira mi alzai e puntai gli occhi al cielo, sospirando per la sensazione provata poggiando le mani sul ventri degli animali. Sotto la guida di nostro padre nelle innumerevoli battute di caccia, entrambi avevamo imparato a sentire... Era il Chakra, quello che lentamente lasciava il corpo dei daini, quello che nei momenti di profonda quiete percepivo ammantare ogni cosa, come un velo di vita silenziosa, quello che pulsava debolmente persino negli alberi. Quello che gli allevatori di bestiame ed utilizzatori del Ninjutsu utilizzavano come arma, dimenticandosi di cosa fosse in realtà.
    Quello di cui anch'io, dopo lo sterminio della mia tribù, avevo deciso di servirmi come arma. Il Chakra per noi era la vita, eppure era per mezzo del Chakra che la vita ci era stata tolta. Quale ironia, guidava ora il filo del mio avvenire...
    Terminò così la battuta di caccia della giornata, nel più profondo rispetto della vita. Le carni di quegli della natura avrebbero sfamato per giorni molte persone, le loro pelli li avrebbero protetti dal gelo dell'inverno che arrivava, le loro ossa un ottimo materiale per la costruzione di utensili dall'importanza esistenziale. Nessuna vita era senza valore, nessuna morte accadeva invano. Questo mi era stato insegnato.
    Una lacrima si staccò dal bordo del mio occhio, scivolandomi calda lungo la guancia.

    Coraggio Gendō, dobbiamo portarli alla comunità prima che faccia buio.


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    Dopo lunghe ore di camminata con la cacciagione pesantemente riversa sulle nostre spalle, io e Ren varcammo infine lo steccato in legno che delimitava il confine di quella piccola comunità. Una manciata di vecchie case si spargeva sul pendio scosceso alla base di una montagna, come fossero il risultato del lancio di un giocatore di dadi. Più in quota, la montagna era coperta dallo scheletro di un bosco defunto: nient'altro che alberi dai rami spogli e rachitici disperatamente protesi verso un cielo impietosamente secco. Sembrava una folla di creature emaciate che pregavano per un po' d'acqua. Ma in quella landa sferzata da venti aridi non esisteva nulla che rispondesse al loro richiamo. Una foresta morta che non poteva ospitare fauna di alcun tipo. Capii quindi la difficoltà dei cacciatori di quel piccolo villaggio nel reperire della carne.

    Aspetta qui, vado a cercare il mandante.

    Fece Ren sbattendo a terra la carcassa del daino.


    ~ X ~


    La seguii con lo sguardo mentre si inerpicava tra i sentierini che si diramavano tra le rocce e cespugli secchi su cui quel piccolo paesino si ergeva. Quando scomparve alla mia vista, vagai con lo sguardo sugli edifici. Riconobbi una stalla, ma era vuota, nessuna bestia a lamentarsi, solo una serie di assi e travi logorate dal tempo, che emergevano dal terreno impervio come la cassa toracica di una grossa creatura divorata fino alle ossa. Le abitazioni, prive di vita come la stalla, davano anche loro l'impressione di poter crollare come bastoncini alla prima ventata. Tutto attorno a me ogni cosa appariva grigia e spenta, cenere di un focolaio che un tempo forse aveva arso vivace, scaldando di una luce ambrata l'intera valle, ma che ora fumava ospitando soltanto tizzoni tiepidi. Gli unici suoni che aleggiavano nell'aria erano il cigolare di porte abbandonate a se stesse e il raro gracchiare di qualche cornacchia lontana che, se possibile, condivano d'un sospiro ancor più funebre il sentimento del luogo. "Perchè non raccolgono le loro cose e non migrano ad Ishi, o in qualche altro villaggio minore comunque prospero... anziché ristarsene qui a morire di fame e abbandono?" domande rabbiose che rivolsi soltanto a me stesso. "Stupidi...!".
    Stupidi? Forse non era questo ciò che avevo pensato. Forse era stata un'altra la parola che aveva lacerato il velo dei miei pensieri. Stupido, al singolare, io. Si perchè la risposta, per quanto amara, la conoscevo. A trattenere lì quella comunità era la stessa forza che aveva spinto anche la mia gente, i Sawokii, a morire nel loro antro personale. Una forza che li aveva indotti ad ignorare ogni segnale della catastrofe in arrivo, firmando la propria condanna a morte. Spazzati via come polvere assieme al loro orgoglio ed alla loro nostalgia per i tempi passati, quelli in cui i Sawokii ed altre tribù dominavano forti sulle proprie... terre. Terra, era quella la forza nociva. Mi piegai sulle ginocchia e sprofondai con rabbia le dita nel suolo. Ne trassi un pugno di terra, che sollevai stritolandola. Quella forza che aveva trattenuto la mia tribù nella Valle del Bianco Sentiero: il legame con la loro terra. Una forza che li aveva uccisi, come avrebbe ucciso la comunità che stavamo cercando di aiutare. Tra le dita stringevo arida terra senza vita, senza anima, senza volontà. Perchè... perchè combattere per una cosa del genere? Perchè rischiare così tanto? "Mà, Pà... perchè non siete scappati? Perchè non avete preso me è Naira e non siete fuggiti lontano da quelle terre maledette? Perchè... perchè mi avete tolto tutto questo... tutto..." Piccole cascate di terra macinata precipitavano silenziose dalla mia mano stretta fino allo spasimo, vene e tendini tremolanti che affioravano sottopelle come i tensori d'acciaio di un ponte pesante centinaia di migliaia di tonnellate. Attorno a me solo desolazione, il respiro di una sofferenza lontana. Di quella comunità restava solo il ricordo. Avremmo anche potuto continuare a rifornirli di carne cacciata da noi, ma sarebbe servito soltanto a rallentare l'imminente fine cui erano destinati. L'unica cosa che avrebbe potuto salvarli era la fuga. Fuggire! Abbandonare la loro terra, i loro usi e costumi, la loro arretratezza e cocciutaggine. Abbandonare tutto ed adeguarsi ai tempi. Se solo la mia tribù l'avesse fatto.
    Fu in quel momento che percepii un suono...


    ~ X ~


    Note lontane che scivolarono sul grigiore del luogo carezzando d'una tremolante scintilla di emozione il villaggio. Esplorai immediatamente con occhi avidi l'ambiente, attirato con passione irresistibile dalla melodia. Sempre più intensa e tuonante, fu in grado di dar colore ad ogni cosa, facendomi ricredere del mio funereo sconforto. Infine comparvero da dietro un angolo come gioielli dimenticati in un cassetto polveroso, un gruppo di bambini. "Bambini..." in quel luogo! Sorridevano e cantavano, battendo a ritmo le mani, e nonostante fossero vestiti di cenci logori, i loro visi parevano più luminosi di qualsiasi focolare. Scesero in fila dal pendio, lungo un sentiero, dirigendosi verso di me. Mi circondarono senza smettere di cantare nell'idioma di Ishivar, camminando in circolo felici. Il coro delle loro voci pareva avvolgermi in una spirale di sensazioni, penetrandomi dritto nel petto, il cuore in tumulto. Nel fui sconvolto, confuso, stordito, e mio malgrado sorriso anch'io. Allora loro risero, lasciando che la canzone si perdesse nell'aria, lasciandomi d'entro una malinconica nostalgia. Alcuni mi presero per le mani, uno si aggrappò alla mia gamba, altri battevano soddisfatti le mani sui daini abbattuti, altri ancora mi osservavano semplicemente meravigliati. Mi chinai, lasciando che mi abbracciassero, ed il feci altrettanto. Gli occhi mi si inondarono di lacrime.

    Ho parlato con il capo della comunità, è tutto sistemato. Appena i bambini hanno saputo del nostro arrivo, sono venuti a ringraziarci, questa è la loro usanza.

    Gridò Ren sopra le risate, comparendo dallo stesso sentiero da cui erano comparsi quei piccoletti. Mi sollevai e la raggiunsi.

    M-Ma non basterà quella carne per sfamarli... Non pensavo ci fossero bambini, così tanti...

    Dissi controllando a stento l'emozione.

    Se la faranno bastare.

    Replicò lei con ferma convinzione.

    Gli accordi prevedono questo, abbiamo soddisfatto il compito che ci era stato assegnato. Ora andiamocene, su!

    N-No...

    No? No cosa, cimice?

    Non voglio andarmene! Questa gente ha bisogno di aiuto.

    Gliel'abbiamo dato...

    Non abbastanza!

    Ora ubbidisci ai miei ordini e seguimi, altrimenti...

    Incrociai lo sguardo di Ren con violenza inaudita, spezzando di netto la discussione. Per qualche istante la fissai, trasmettendole tutto il mio bisogno. Poi, con voce calma e pacata:

    Sensei, chiedo il permesso di restare qui per un po'.


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    Prenditi il massimo e meno male che dovevi riprenderci la mano!!
     
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