Cenere spenta

Pq+Sblocco Suiton [Warui Nise]

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    WARUI NISE

    [Paese del Fulmine, Red'Nuh]
    Data: 20d.Z/Meeting dei Kage/ Ore 8:30


    Parlato-Pensato-Azione


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    Quella mattina...


    Sorgeva il mattino in un giorno d'inverno del ventesimo anno dopo Zero. La situazione così precaria a Red'Nuh stava fiaccando anche gli animi più resistenti. Centinaia di sfollati erano stati distribuiti in abitazioni di emergenza da non molto tempo e i pochi in possesso di una propria abitazione erano veramente fortunati, o erano precedenti abitanti di quel paese tra i ghiacci. La disperazione serpeggiava nella città di Red’Nuh, tra le case e le strade.

    Nella città, andando verso sud era stata costruita un’accademia di fortuna, che negli ultimi tempi era stata ampliando permettendo a sempre più persone di ospitarla anche se la maggior parte delle lezioni venivano tenute ancora all’aperto. Oggi però, proprio all’interno di quella struttura, si sarebbe tenuto il test per la promozione a genin di uno studente di quella scuola.



    [...]



    Quando il mio vecchio Yogen entrò nella mia stanzaper svegliarmi, non si stupì nel vedermi ancora a letto. Non stavo dormendo, ne ero in ansia per l'esame: stavo lì, a fissare il cielo attraverso la finestra sopra il mio letto, con gli occhi fissi che trasmettevano tutta la loro tristezza.

    -Madre, perché non sei qui a guardarmi?-

    Osservavo il cielo con molta attenzione, cercando di cogliere anche il più piccolo dettaglio, come se cercassi il suo volto in quella blu infinita il suo volto, di cui avevo solo un vago ricordo, una fumosa immagine, ancora impressa nella mia memoria, che mi tormentava come un pensiero suicida.
    Tutto doveva essere perfetto quel giorno, dovevo farlo per lei, per portare avanti la sua memoria, per renderla fiera di me nonostante tutto.

    -Buongiorno caro, è tutto apposto?-

    -Si papà-

    Per fortuna c'era lui a tirarmi su il morale, distogliendo i miei pensieri da quel vociare nelle mia mente, il ricordo della sua voce, un eco di una madre perduta.
    Aspettai che si sedesse sul letto e mi girai verso di lui per guardarlo: aveva gli occhi doloranti e rossi che non nascondevano la sua stanchezza, o meglio quella che lui spacciava per stanchezza.

    -Lo hai fatto di nuovo non è vero?-

    Non lo voleva ammettere ma sapevo come passava le sue serate. Usciva spesso, mentendo: diceva di andare in missione e che sarebbe mancato per poche ore, ma tornava la sera, ubriaco fradicio in spalla a uno dei suoi compagni di bevute che lo gettava sul divano di casa prima di andarsene. Anche loro erano stanchi di come si riducesse ogni volta che lo invitavano a bere, e non perdevano occasione per farglielo sapere.
    Cercavo di aiutarlo, tentavo di portarlo a letto ma risultava tutto inutile e controproducente: trattare con lui in quello stato era impossibile, troppo violento per cercare di imporgli ordini e finivo ogni volta per essere preso a botte fino allo svenimento. Diceva che gli ricordavo la mamma e che non sarei dovuto mai nascere.
    Così finivo per tornare alla mia stanza, per quanto potessi farlo con quel corpo mal messo e dolorante.

    -Perché se n'è andata la mamma al tuo posto?-

    A quel sussurro, capii che questa volta l'avevo davvero fatto incazzare: Afferrò il mio collo, sentivo la pressione delle sue dita sul mio collo, l'aria mi stava mancando e non riuscivo a controllare gli occhi che si muovevano all'impazzata per l'adrenalina spostandosi da un parte all'altra della stanza. Volevo con tutto me stesso staccare quelle mani dalla mia faringe ma la mancanza d'aria mi rendeva difficile qualsiasi azione.
    Ma quell'azione, così efferata e improvvisa, non era l'unica cosa che stava attirando la mia attenzione: la stanza intorno a me, anche se quasi impercettibilmente si stava cominciando a scaldare. Dopo 1 minuto in cui riuscivo a stento a dare boccate d'aria, il calore era ormai diventato insostenibile e le pareti avevano cominciato a prendere fuoco. L'intera casa in un secondo era completamente andata in fiamme circondandoci come se fossimo all'interno di una palla di fuoco.

    -T-ti prego lasciami andare... non respiro-

    Quando dissi quella frase, sentii qualcosa che mi cadeva in fronte, un gocciolio costante e fastidioso che mi scavava la fronte per la precisione con cui cadevano le gocce sempre nello stesso punto e, se fino a quel momento avevo distolto lo sguardo da lui, cercando l'origine di quel gocciolio mi volsi verso mio padre e un agghiacciante visione mi fece scaturire un urlo soffocato: mio padre, come prosciugato da una forza invisibile, si era raggrinzito andando ad assomigliare ad un dattero per quanto la sua pelle era diventata grinzosa e il suo sangue, di cui erano composte quelle piccole gocce fastidiose, gocciolava da un lunga incisione sulla sua fronte.

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    [...]



    Mi svegliai di soprassalto, pieno di sudore e con il fiatone, terrorizzato come molte sere da quando ero solo a questa parte.

    -Era solo un sogno-

    Allora non ero considerato un folle dal mio stesso clan come sono adesso, un condannato, un criminale. Cercavo di tirar fuori la testa tra le difficoltà di essere bambino senza madre e aspettavo con ansia il momento di poterla riabbracciare.
    Se a 16 anni desideri così tanto non essere più distante dai tuoi genitori, desideri morire, anche dissanguato non importa, solo per raggiungerli ovunque essi siano, allora inizi a comprendere che le storielle, per tenerti buono da piccolo, non sono così verosimili.
    La prima lezione che m'impartì la condizione da schiavo dei miei pensieri in cui mi trovavo fu proprio che la vita non è rosa e fiori come te la raccontano.

    Io ero la maledizione del mio stesso clan. La cosa che aveva lasciato un orribile cicatrice nella famiglia, che spaventava i bambini con i suoi strani e spaventosi tatuaggi. E se un giorno gli avessi dimostrato che ero il mostro che LORO avevano creato? No. Non potevo. Non ero ancora un peso per il mio villaggio, fuori dal mio clan potevo ancora avere una vita, potevo riscattarmi e ritornare al mio clan rinato... forse. Perché senza il supporto della mia famiglia sarebbe stato tutto molto più difficile, non potevo concedermi alle poche gioie che mi erano rimaste, perdere la testa aspettando che la sporcizia e l'ingordigia prendessero il sopravvento.

    Proprio quando questi pensieri si stringevano come rampicanti sulle mie convinzioni, osservai il sole fuori dalla mia finestra. Era appena sorto, ciò voleva dire che avevo ancora un po' di tempo per prepararmi prima del primo passo per diventare parte integrante del villaggio: il mio esame da genin.

    Continua (1/3)...
     
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    Tra un sorriso appena accennato a un bambino e un saluto frettoloso ad alcuni compagni che sarebbero rimasti indietro rispetto a me, mi verso l’accademia in una giornata fredda ma soleggiata, con le strade semivuote che cominciavano a riempirsi solo quando ormai tutti i genin erano ormai già in accademia. Sentivo il freddo che mi accarezzava il volto, portandomi dei leggeri brividi sui miei pesanti abiti. Purtroppo non potevo vestirmi come nella mia amata estate, leggero e senza alcun limite, ma dovevo rimanere rinchiuso in una giacca pesante per evitare di prendermi qualche malanno. Già sentivo il sudore che si creava sulla pelle coperta e speravo di tornare in fretta a casa per riuscire a togliermelo di dosso il prima possibile.

    Per fortuna però, così coperto riuscivo a non spaventare i pochi bambini che ancora non avevano visto i miei numerosi tatuaggi. Almeno non mi sentivo a disagio con tutti quegli occhi giudicatori addosso.

    Alle porte dell’accademia, erano ancora in pochi i ragazzi che erano rimasti fuori. Chi stava ancora decidendo se entrare o svignarsela, chi come me doveva dare l'esame e quindi aspettava il suo turno, erano tutti sorridenti e spensierati. Un persona normale penserebbe che io pensi di essere la pecora nera, l'indesiderato tra tutte quelle persone ma in realtà fuori dalle mura di casa non mi sentivo così solo. Era già abbastanza sentire che potevo stare in mezzo ai miei coetanei senza essere schernito o guardato male, come mentre mi trovavo nell'area della città dedicata al mio clan.

    In cuor mio sapevo che ognuno di loro, chi più chi meno erano tutti dei falsi, dei fogli bianchi ancora da essere scritti e indirizzati forzatamente verso il loro destino già scritto che li avrebbe portati alla morte in qualche stupida guerra generata da potenti vecchiacci incapaci e indegni di stare al potere. Erano maschere da teatro, delle figure sbiadite di attori che sfruttavano un copione dedicato ad ogni loro interlocutore per interpretare un personaggio diverso a seconda di chi si trovavano davanti, così come me.
    Non erano dissimili da ciò che anche io ero diventato ed ero nato per essere: dei voltagabbana, manichini che erano pronti ad essere vestiti di pensieri che non gli appartenevano ma erano la derivazione della realtà che li circondava, una realtà che li spingeva a combattere per sopravvivere a una fine umile, che li spingeva a combattere per farsi un finto nome, un targhetta da eroe che ormai aveva perso il suo senso da molto tempo.

    Ma la realtà è ben diversa appunto da quella che io definisco finzione. Gli eroi aspiravano alla gloria, a essere i migliori tra i ninja per essere ricordati per la loro forza e aver portato un periodo di pace, ad un paese martoriato da eventi negativi, ma non si accorgevano di star mettendo un bastone tra i raggi della loro bicicletta: il solo obbiettivo della pace è un obbiettivo irraggiungibile se si vive in una società basata sugli shinobi. Una società senza guerre non avrà bisogno di stupidi ninja a difenderli che verranno messi in ridicoli dagli stessi lavoratori comuni che li riterranno dei cialtroni. L'unica cosa che potrebbe salvare il nostro paese sarebbe un pizzico di umiltà, come quello che ha una rosa rispetto a un grande albero, nonostante sia mille volte più bella.

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    [...]



    Il suono di una campanella interruppe il mio ennesimo flusso di coscienza, segnalandomi che le lezioni erano ormai iniziate, quindi si potevano iniziare gli esami senza preoccupazioni.
    Il silenzio in seguito riprese il sopravvento, non c’è nulla ad accompagnare quella mattinata in quel di Red'Nuh. Ci trovammo ovviamente dentro un aula, spogliata dagli arredi, dell’accademia. Parliamo di un edificio capace di sfornare Genin degni o indegni del loro nome, a seconda dei punti di vista, e di concorrere a posti di alto rango tra le gerarchie militari del paese, un cammino molto lungo e probabilmente tartagliato da mille ostacoli e nemici da abbattere, un viaggio che anche i più consapevoli e forti, come il sottoscritto, dovevano iniziare da un piccolo passo: l’esame Genin!
    Partendo appunto da loro è meglio concentrarsi sul maestro Tyron, uno dei tanti a cui è stata assegnata una classe.. cosa ha di particolare questo ninja? Beh, è il maestro di Zend Izuki, il ragazzino con i capelli strani e gli occhi verdi! Come tanti altri anche il nostro piccolo eroe dovrà affrontare i primi passi per diventare un ninja devoto al suo villaggio quindi meglio darsi una sbrigata no?

    Ovviamente però, il viaggio non poteva che iniziare che nel modo peggiore possibile...

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    Il sensei era già in classe da tempo, gli piaceva squadrare i giovani da capo a piedi, infatti cominciava ad osservarli dal momento in cui varcavano la soglia dell'aula. L'appuntamento era uguale per tutti.
    Faceva finta di leggere il giornale, seduto dietro la sua cattedra, dondolando sulla sedia. I piedi appoggiati sulla cattedra davano lo slancio alla sedia per il suo leggero e costante dondolio, come un uovo su un muro pronto a cadere e frantumarsi. Occhiali appoggiati sulla testa, impigliati tra i capelli e volto spensierato, come di un ingenuità naturale, che nascondeva però la sua elevata esperienza nel campo. Portava i capelli corti e scompigliati che gli davano un aspetto sbarazzino, occhi chiari e allegri. Nonostante sembrasse molto simpatico e cordiale, la sua sola presenza riusciva ad accapponare ogni poro della mia pelle candida. Troppi erano i dettagli fuori posto e lasciati al caso, tanto che in un primo momento uscii di nuovo dalla stanza prima di essere richiamato.

    -Ben arrivato Nise, vogliamo iniziare?-

    Continua (2/3)...
     
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    Per fortuna quella tortura terminò in fretta. Quell'individuo era il mio opposto, la mia rovina, tutto quello che non volevo diventare: un innato ottimista che vede tutto col suo sguardo ingenuo senza soffermarsi su quello che lo circonda. Vedeva la sua nazione come un innocente agnellino da salvare a tutti i costi perché innocente in una guerra così crudele, una capo a cui appellarsi per proteggerlo al meglio. Come se fosse così: ne eravamo usciti infelicemente, e ci stavamo ancora riprendendo dalle varie batoste che avevamo preso, ma in una guerra la colpa è reciproca, tutti si macchiano le mani di sangue, si macchiano della colpa di essere negligenti, un sangue rosso quanto una rosa e delicato come dei denti di leone. La colpa di un capo che ha portato alla rovina il suo paese senza prendere la giusta decisione e, strano ma vero, di un popolo che gliel'ha permesso, che gli ha permesso di governare. Era come sentire un bambino che ancora non aveva capito come funzionava il mondo, era convinto che il mondo girasse tutto intorno ai ninja quando le scelte venivano fatte dalle persone comuni, magari anche dagli stessi genitori del ninja che è andato a morire per renderli fieri. Il mondo è fatto dalle parole dei suoi capi e del suo popolo, non dal filo di una spada, anche perché senza la parola che gli da il permesso la spada di un paese non può fare nulla in questo mondo, così come io sono stato influenzato fino ad ora dalle parole ricche di disprezzo del mio stesso clan.

    Riuscii a effettuare una combinazione pressoché perfetta tra le tecniche che mi chiese di eseguire singolarmente, non mi bastava restare nella mediocrità, dovevo stupire ogni sua più rosea aspettativa, volevo vederlo senza parole, visto che non gli erano di certo mancate fino ad allora. Un pensiero però mi chiuse in me stesso: mettermi in mostra voleva immischiarsi in situazioni che mi avrebbero messo in primo piano e ciò voleva dire affrontare il mio clan sicuramente.
    Una piaga era problematica, portava delle responsabilità e una macchia sull'onore del clan, ma una piaga schifosamente brava in quello che faceva, nel controllo del chakra e in qualcosa che poteva portare a perdere il controllo su di essa, era qualcosa che andava risolto immediatamente e non senza far scorrere sangue.
    Decisi così di limitarmi, di fare qualche piccolo errore così da non uscire a pieni voti, ma comunque riuscire a passare.

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    -Ben fatto, sarai un ottima arma da oggi. Cerca solo di fare del tuo meglio d'ora in poi, senza limitarti come oggi.-

    Rimasi stupito dalla capacità che quel ninja aveva di riconoscere il mio talento, nonostante avessi cercato di nasconderglielo in tutti i modi. Afferrai il coprifronte che aveva tra le mani guardandolo intensamente negli occhi; nonostante ogni sua parola mi avesse infastidito portandomi a quasi non ascoltarlo, qualcosa mi aveva quasi distratto dai miei pensieri, forse il suo sorriso così spontaneo che aveva catturato la mia mente allontanandola dai pensieri negativi derivanti a tutti quelli falsi che ho ricevuto fino ad ora.

    -Non sono abituato a questo genere di cose.-

    -Visto che ci siamo, ho una cosa da farti provare.-

    Mise le mani tra le varie scartoffie appoggiate sulla scrivania, che sembravano aver vissuto una guerra in miniatura, tirando fuori dei foglietti di una strana carta crespa, di una forma squadrata e di colore giallino, mantenendole con un panno protettivo. Erano dei fogli particolari, usati per capire la tendenza del chakra verso un certo elemento e il foglio subiva varie trasformazioni in base all'elemento che si possedeva. Decisi quindi che una volta arrivato a casa ci avrei provato e avrei cominciato a studiare come usare quelle nuove nozioni.
    Mentre discutevamo di quello che sarebbe successo dopo l'esame, cercando di mantenere nei suoi confronti un tono cordiale, qualcosa attirò la mia attenzione. Trovandoci al secondo piano della struttura, dalla finestra riuscivo ad osservare tutta la zona frontale dell'accademia e un particolare individuo attirò la mia attenzione: era uno shinobi, forse un jonin dallo sguardo spento, senza emozioni, che si aggirava meccanicamente al di fuori seguendo una strana ronda, guardandosi costantemente attorno nel mentre si muoveva.
    Improvvisamente, il suo sguardo penetrante e aghiacciante si diresse verso l'ato, proprio i direzione della mia finestra e ricambiava il mio sguardo, solo molto più aggressivo del normale.

    Rimasi spaventato e perplesso, andando a interrompere subito il contatto visivo, ormai insostenibile, rivolgendolo verso l'alto, verso il cielo, che mi aspettavo di trovare blu e terso come quella mattina rimanendo sconvolto da una visione particolare: l'intera volta celeste era coperta da quello che sembrava a prima vista un ologramma di dimensioni colossali che copriva a cupola l'intera città. Riuscivo a capire davvero poco quello che si dicevano, deducendolo dal labiale, poiché il suono era attutito dalle finestre chiuse, che aprii subito avvertendo il mio esaminatore.

    CITAZIONE

    Vi siete premurati di applicare ogni forma possibile di sicurezza per evitare incidenti durante questo meeting, ma avete lasciato entrare parte delle mie forze nei vostri villaggi così facilmente. Sapete come tutto questo sia possibile?


    Una scintilla scatto nella mia mente e tornai ad osservare lo shinobi al piano terra, misteriosamente. Una piccola scossa fece tremare l'edificio, l'aria si faceva calda e a fianco a me della polvere generata dal soffitto dalle vibrazioni cadde al suolo. La sequenza di eventi mi fece elaborare velocemente cosa stava per accadere. In quel momento sentii una presa al bacino che mi sollevo e mi spinse verso la finestra.

    -FUORI! FUORI! FUORI!-

    Mi lanciai dalla finestra, accompagnato dalle braccia del maestro che mi segui subito dopo. Una vampata di calore mi colpi la schiena, accompagnata da un lontano, acuto e straziante urlo di dolore. Rimasi agghiacciato e non ebbi neanche la forza di girarmi.
    Qualcosa di pesante mi cadde sulla schiena appoggiandosi a peso morto sulla mia schiena, mentre sentivo che un qualcosa tracciava una scia sul mio collo, forse una goccia di sudore o peggio del sangue. Curioso toccai la goccia che percorreva il mio collo: era rossa e aveva una consistenza simile al sangue, ma molto più liquida, come se fosse stata mischiata a dellacqua. Provai ad assaggiarla ma quello non era il mio sangue, riuscivo a capirlo dal suo gusto, che avevo imparato a riconoscere con un padre violento, ma il gusto non era peggiore di quella del mio sangue... anzi forse era anche meglio.
    Subito cercai di allontanare il pensiero del sapore di quel sangue, non era il momento. Volsi lo sguardo dietro di me e sulla mia schiena vidi soltanto un corpo morto, completamente carbonizzato e martoriato dalle schegge di vetro, con solo un ciuffo dei capelli bruni che lo caratterizzavano: era il mio esaminatore. Probabilmente si era frapposto fra me e la violenta esplosione, cercando di salvarmi ma finendo per fare la fine di una bistecca carbonizzata.

    Portai il corpo al suolo delicatamente e lo osservai schifato cercando di pulirmi dal corpo tutta la pelle carbonizzata che si infilava tra i vestiti imbottiti.

    Dolore... dolore... quanto dolore tutto insieme...



    Una vocina nella mia testa mi tormentava, in automatico la mano si avventò sul mio braccio cominciando a sciogliere le bende su di esso. Una volta che la pelle fu messa a nudo, dava spazio a profondi tagli verticali sul braccio che sembravano davvero molto profondi, come scavati e scavati per un sacco di tempo, forse anni addirittura. Tagli irregolari ma a una distanza simile fra loro, come se con un rastrello si smuovesse della terra dura.
    Cominciai a grattare, grattare e grattare finché del sangue usci dal braccio scottato dalla fiamme che mi provocava un fastidio tale da portarmi a quella tortura personale.

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    Pian piano però, il calore nel braccio si attenuò e le bende divennero umide. Ma non erano rosse di sangue, bensì sembravano bagnate da dell'acqua. Osservai le mie ferite: si erano sanguinanti ma non presentavano nessuna ustione, come se non fosse successo nulla, come se la vampata non mi avesse mai colpito.
    Ma le mie bende non furono l'unica cosa che sembrava essere umida. Inserii la mano grondante di sangue all'interno della tasca destra, dove avevo riposto il foglietto di carta: era completamente zuppo e si era sciolto completamente.

    -Acqua... forse posso fare ancora qualcosa...-

    Riavvolsi le bende e tamponai le ferite stringendole con forza, pensando a come poter salvare la situazione all'interno: dovevo gettarmi tra le fiamme e salvare i sopravvissuti che al momento urlavano ancora dalla disperazione, ma non appena feci un passo verso la scuola, la mia attenzione si posò su alcuni individui intenti ad accerchiare la scuola. Si stavano avvicinando, trascinando oggetti pesantissimi. Erano coperti di sangue, come se avessero combattuto una violenta lotta prima di essersi avvicinati. Tra di loro riconobbi lo shinobi di poco prima e fu quella la scintilla che mi fece cambiare idea. Anche se tutte quelle vite straziate erano ormai spacciate e stamattina le odiavo con tutto me stesso, la bontà del mio maestro aveva addolcito la mia visione del mondo, perciò un forte senso di colpa si mischio alla rabbia verso questa realtà crudele. Ma nonostante odiassi me stesso per l'indifferenza che mostravo all'esterno, non riuscendo precisamente a esternare tutte le mie emozioni contrastanti, sapevo che ormai erano spacciate. Il ragazzo lo aveva intuito prima di me e per questo si era sacrificato affinché io potessi salvarmi da morte certa, non potevo rendere la sua morte vana. Cominciai a correre e correre, arrivando ben fuori il villaggio, con gli abiti sporchi di cenere e mezzi bruciati.

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    Quando ormai il pericolo era scampato, mi girai per l'ultima volta verso la città che era stata la casa del mio inferno, il luogo che mi aveva torturato, che aveva ucciso la mia innocenza, malmenato e sputato su ogni mia emozione, che aveva spazzato via la mia speranza nell'umanità, ma che mi aveva portato anche a rivalutarla. Ed è lì che vidi quella violenta esplosione polverizzare la nuova accademia, risvegliando di nuovo le voci che saltavano nella mia mente di tanto in tanto.

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    Dolore... dolore... ti prego, salvaci da questa sofferenza...



    La vista cominciò ad annebbiarsi, le ossa cominciarono a cedere e un forte senso di stanchezza mi pervase il corpo: avevo perso troppo sangue e stavo svenendo. Cercai di fare un ultimo passo ma caddi al suolo venendo abbracciato dalla neve gelida che si insinuava tra i vestiti, sporcandosi del mio delizioso e rosso sangue.
    Fu poco tempo dopo, dal mio punto di vista, che mi risvegliai in un ospedale di soprassalto.

    -Ma questa è... l'ospedale di Kumo?-

    Riconoscevo quell'ospedale, si trattava dell'ospedale mia madre alloggiò prima che il mio clan fosse costretto a spostarsi a Red'Nuh, portandosi dietro una donna, debole e indifesa in procinto di partorire la sua rovina.

    Fine!(3/3)
     
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