Accademia Seijo Hoozuki

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    C'erano stati momenti migliori per essere un ninja. C'erano stati momenti migliori per vivere a Kiri. C'erano stati momenti migliori per essere un sensei d'accademia o per essere un Hoozuki. Lo sapeva Seijo Hoozuki e lo sapeva Rem Kishita.

    Chi era Seijo Hoozuki? Il solito privilegiato figlio di una grande casata? Quello col destino assicurato, con una famiglia di shinobi importantissimi, parente dei più grandi ninja del villaggio? Non proprio, la sua è una storia molto più particolare.

    Ma anche la storia del suo sensei d'accademia, Rem Kishista, non è una storia comune. Quel giorno egli entrò in aula, con la classe radunata al completo, per il giorno più importante della loro adolescenza. Rem indossava la giubba chuunin e il coprifronte del villaggio, ma ciò che colpiva nel sua aspetto era la manica destra della maglietta che penzolava floscia sul fianco.

    No, Rem non aveva soltanto perso il braccia in quella maledetta guerra fra pirati. Rem aveva perso il senso di una vita. Nel suo cielo non brillava più alcuna stella polare a indicargli sempre la rotta da seguire. Aveva sognato, tanti anni prima, di diventare Mizukage e difendere il suo villaggio e i suoi cari. Ma si sa, la vita è un sentiero pieno di curve e trappole. Rem aveva visto il suo caro fratellino morire tra le sue braccia. Anzi, avrebbe voluto stringerlo forte un'ultima volta prima di dirgli addio, ma non era stato in grado di proteggere nemmeno sè stesso, finendo monco di un braccio.

    Ora guardava le nuove leve di Kiri con aria spenta e disillusa. Aveva scelto di fare il sensei perchè per un invalido di guerra non c'erano molti altri sbocchi lavorativi come ninja. Persino lavorare in ufficio gli sarebbe stato difficile, se non impossibile, avendo perso la mano con la quale scriveva. Di continuare la vita operativa non ne voleva proprio sapere. Aveva già fallito come shinobi quando aveva ancora un corpo intero a disposizione, quante speranze poteva avere ora con soltanto un braccio?

    Si lasciò cadere sbuffando sulla sedia dietro la sua cattedra. < Avanti, sentiamo cos'avete da dire. > Parlò rivolgendosi alla sua classe. < Ci sono tanti modi onesti di guadagnarsi da vivere, perchè avete scelto proprio di fare i ninja? >

    Hai carta bianca sull'inizio, gestiscilo come vuoi cercando di farmi conoscere il più possibile il tuo personaggio. L'importante è che alla fine tu arrivi in aula. Il sensei vorrà comunque sentire le motivazioni che spingono tutti i suoi allievi a diplomarsi come genin. Quindi anche Seijo dovrà dire la sua
    Per qualsiasi dubbio, mp.
     
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    Forse mi è uscito un po lunghino, chiedo scudo ^^"

    Ci tenevo a fare un buon prologo, nei prossimi cercherò di essere più conciso!


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    Parlato Seijo
    Pensato Seijo
    Parlato altrui

    C'erano stati momenti migliori per essere un ninja. C'erano stati momenti migliori per vivere a Kiri. C'erano stati momenti migliori per essere un sensei d'accademia o per essere un Hoozuki. Lo sapeva Seijo Hoozuki e lo sapeva Rem Kishita.

    Chi era Rem Kishita? Uno dei tanti “lasciati indietro” tra le fila degli shinobi di Kiri? Quello col meglio alle spalle, che aveva dovuto sacrificare più di molti per il suo paese ma che ora era finito ai margini? Non proprio, la sua è una storia ancor più particolare.

    Ma anche la storia di un suo diplomando, Seijo Hoozuki, non è una storia comune.

    La mia..non è una storia comune.

    In effetti, un buon punto per cominciare a raccontare la mia storia potrebbe essere proprio la mattina in cui conobbi Kishita-sensei.

    Potrei cominciare, come molti racconti, col dire che quella mattina mi svegliai nel mio letto. Ma la realtà è che la notte prima non avevo praticamente chiuso occhio. Pur non essendo mai stato un tipo particolarmente ansioso, il timore di non essere all’altezza di quella che mi ero prefissato essere l’unica via per me percorribile mi attanagliava. Cosa sarebbe accaduto se non fossi riuscito a passare l’esame genin? Ci avrei riprovato, certo. Ma a quel punto ero sicuro che in me si sarebbe insinuato un dubbio: forse semplicemente non ero adatto. Forse l’inettitudine di mio padre e la sua inadeguatezza erano un lascito, un’abilità innata da tramandarsi di padre in figlio. Forse ero destinato a diventare come lui e a non indossare mai un coprifronte in vita mia.
    Mi turbinavano in mente tutte queste cose e, seppure cercassi di mettere ordine ai miei pensieri e tranquillizzarmi, sembravo oramai in balia delle mie paranoie.

    Devo calmarmi, devo parlare con mamma.

    Pensai. Lei aveva sempre la parola giusta e ora il conforto materno era proprio ciò di cui necessitavo. Nessuna persona credeva in me più di lei e non fosse stato per la sua insistenza e il suo impuntarsi, a quest’ora forse al posto di imparare a lanciare kunai stavo imparando dattilografia e..chessò l’arte dei timbri.

    Puntai le mani sul materasso e feci forza sulle braccia; da prono passai così, dopo qualche movimento, ad esser seduto sul letto. Roteavo lo sguardo intorno alla stanza ma non riconoscevo nulla di familiare, come se quella stanza non fosse nemmeno mia. L’ansia si era impossessata di me e mi aveva intorpidito sensi e mente. L’imperativo di trovare mia madre e il suo conforto si faceva sempre più insistente e necessario. Mi alzai e corsi in bagno, giusto il tempo di aprire freneticamente il rubinetto dell’acqua fredda e sciacquarmi più volte il volto nel vano tentativo di lavare via le paranoie dalla mia testa.

    Inutile. Con l’asciugamani ancora a penzoloni sulla spalla destra, uscii dal bagno e mi diressi nella zona giorno dello spazioso appartamento in cui vivevo..meglio dire in cui viveva la mia famiglia.
    Trovai mio padre sprofondato nella poltrona e intento a leggere le ultime su un giornale tutto spiegazzato: a quanto pare quest’oggi non doveva recarsi a lavoro, non che la cosa mi interessasse particolarmente. Tuttavia avevo sperato in cuor mio di non trovarlo in casa: la sua presenza, la sua inettitudine, la sua aria goffa e impacciata mi avevano sempre dato il volta stomaco e mancava giusto questo per completare una mattinata già di per sé parecchio complicata.

    Il grande giorno!

    Disse, piegando ulteriormente il giornale e facendo spuntare il suo nasone tra le pagine di carta. Non lo si poteva vedere direttamente, ma sotto al giornale si era stampato quel suo solito sorriso da ebete e certe volte non riuscivo a capire se fingesse di non sapere o se proprio non gli interessasse affatto della mia opinione nei suoi confronti. Per lo più ci ignoravamo ma per quelle poche volte in cui ci capitava di interagire, era sempre stupidamente cortese…proprio come in questo frangente. Perché fingere che ti interessi, padre? Perché siamo costretti a recitare una parte che non ci appartiene più da molto tempo ormai? Perché dobbiamo far finta che tu non abbia ostacolato la mia scelta fin dal primo giorno d’accademia e anche prima?

    Dov’è mamma?

    Gli chiesi, senza nemmeno degnarlo d’una risposta o incrociare il suo sguardo. Non volevo dargli soddisfazione, giocare al suo gioco di ruoli e finzione. Non eravamo amici, né tanto meno padre e figlio. Eravamo solo due persone agli antipodi che per qualche scherzo del destino s’erano ritrovati ad esser l’uno padre e l’altro figlio. Due attori mascherati avrebbero potuto sicuramente far meglio e fingere questa relazione meglio di quanto io e mio padre effettivamente avevamo fatto in questi 10 lunghi anni.
    Ma dovetti trattenere comunque il disgusto e continuare ad interagire con lui, poiché mi serviva sapere proprio da lui dove si trovava mia madre. Non a lavoro, quello era sicuro: poco dopo la mia nascita aveva lasciato il posto dove lavorava con mio padre per dedicarsi alla casa e a me a tempo pieno. Forse era stato anche per questo che avevamo presto sviluppato un rapporto molto intenso e quasi morboso: vivevamo in simbiosi dalla mia nascita ed era lei a procurarmi sorrisi e a lenire ferite.
    Osservai mio padre trasalire alla mia domanda e nascondersi con fare goffo dietro lo stesso giornale che fino a pochi istanti fa aveva piegato ripetutamente per poter far emergere il suo volto.

    Ehmm..Ehmmm..Non saprei proprio dirti eheh.

    La sua voce continuava ad incepparsi e non era sicuro di sé nemmeno mentre parlava con suo figlio. Ma certo qualcosa non quadrava: stava palesemente mentendo, ahimè, con scarsi risultati.
    Ma ero stanco di avere a che fare con lui, quanto meno per quella mattina. Avevo già raggiunto il massimo di sopportazione per quanto mi riguardava: digrignai i denti rumorosamente di fronte a quel suo impacciato tentativo di mentire ed esser padre, dopo di che mi voltai visibilmente contrariato e imboccai la strada per la cucina. Il mio stomaco brontolava.
    Entrai nell’ampia cucina e la mia attenzione fu subito catturata da una sorta di bigliettino appoggiato sul tavolo. Lo presi tra indice e pollice e lo sollevai fin davanti ai miei stessi occhi, per leggerne attentamente il contenuto:

    Caro, io esco! Vado a prendere una torta e dei fiori per fare una sorpresa a Seijo.
    Ricordati che oggi è il giorno del suo esame! Io sono certa che tornerà con un coprifronte e ci renderà…ORGOGLIOSI <3 <3 <3


    Mi scappò un sorriso e gli occhi mi si inumidirono: non era da me emozionarmi per così poco ma quelle parole affettuose da sole erano riuscite a calmare il mio stato di turbamento.
    Poi però mi venne da pensare al sottinteso del biglietto: mio padre non si era ricordato da solo del “gran giorno”, come lo aveva chiamato lui, ma era stata mia madre a ricordarglielo; e ben peggio: mio padre non era stato nemmeno in grado di nascondere un bigliettino e contribuire alla “sorpresa” che mia madre stava orchestrando con tanta cura.

    Tsk.

    Mi feci scappare, mentre stropicciavo il bigliettino e lo gettavo nell’immondizia. Quanto meno volevo proteggere mia madre dall’inettitudine di mio padre e farle credere che in effetti io fossi ignaro di tutto.
    Per lo meno ora sapevo che mia madre non si trovava in casa e così mi ero convinto che non ci fosse ulteriore motivo per me di rimanere oltre in quella abitazione. Afferrai una mela dal cesto della frutta e cominciai a sgranocchiarla distrattamente mentre giravo per casa intento a scegliere i vestiti da mettere e contemporaneamente a ripassare le nozioni che avevo imparato in quegli anni d’accademia.
    Gettai il torsolo della mela nel cestino della camera e presi a vestirmi: una maglietta nera attillata con impresso in bianco, sulla schiena, il simbolo del clan Hoozuki. Era un regalo di mia madre a cui tenevo molto, anche perché in genere in casa nostra non erano presenti molte cose che rimandassero direttamente al nostro lignaggio o alla nostra appartenenza al clan Hoozuki. A completamento, dei pantaloni neri con molte tasche e i soliti gioielli con cui mi ostinavo ad ornarmi, come una femmina qualsiasi.

    Uscii di casa distrattamente, mentre mi lisciavo i capelli color della neve con le mani e pensavo a quanto stessero diventando lunghi. Forse un coprifronte mi avrebbe aiutato a tenerli in ordine, magari all’indietro..
    In ogni caso ero contento di esser finalmente posseduto da questo genere di pensieri e non dalle paranoie che avevano accompagnato il mio “risveglio”.
    Imboccai la via che dal quartiere residenziale in cui abitavo doveva portarmi all’accademia, dove si sarebbe tenuto l’esame genin. Conoscevo a memoria ormai quella strada, così come conoscevo alla perfezione anche quello stupido quartiere residenziale in cui abitavo dalla nascita. Si trattava di una zona piuttosto borghese, sempre ordinata e che, con i suoi colori, stonava parecchio con l’aspetto generale di Kiri. Odiavo quel quartiere per la sua falsità: abitato per lo più da funzionari statali e impiegati, cercava a tutti i costi di emergere dalla nebbia di Kiri con i suoi colori sfavillanti e le sue strutture architettoniche elaborate. Come se ci fosse bisogno di emergere dalla nebbia! Avevo sempre pensato che il bello di Kiri era proprio il modo in cui anche la sua architettura e la sua composizione urbana si fondessero perfettamente con la nebbia caratteristica dell’isola e in generale con la sua impostazione climatica: trovavo perfetto quel grigiore e quei colori spenti.

    Mentre pensavo poi a quanto fosse strano e contemporaneamente affascinante che fino a 200 anni prima l’esame genin del Villaggio della Nebbia Insanguinata consistesse in uno scontro spesso mortale con i propri compagni d’accademia, mi ritrovai all’incrocio che precedeva la via dell’accademia. Stavo per imboccare proprio quella strada quando d’improvviso alcune voci e alcune parole tagliarono l’aria e giunsero fino alle mie orecchie, facendomi sobbalzare.

    KOEDA! KOEDA!

    Significava ramoscello. Era così che alcuni (beh, molti in realtà) bulletti avevano preso a chiamarmi e il nome si era diffuso con tale rapidità che anche molti compagni dell’accademia e persino alcuni adulti avevano preso a chiamarmi così.
    Ramoscello. Era un palese richiamo alla mia situazione famigliare: la mia famiglia era infatti soprannominata “il ramo spezzato del clan”, per via della scelta di mio padre di non seguire le orme dei suoi predecessori e di non avere nulla a che fare con le vicissitudini del clan e, più in generale, degli shinobi del Villaggio della Nebbia. E così quello stupido mi aveva fatto guadagnare questo..”adorabile” soprannome. Lo odiavo con tutto me stesso e il mio temperamento alquanto focoso faceva sì che ogni volta che lo udissi non riuscissi a far finta di nulla e tirare dritto. Avevo beccato un sacco di botte negli anni proprio a causa di questo mio temperamento e di questo stupido soprannome. Il copione era lo stesso: ogni volta mi fermavo, domandavo di ripetere se avevano il coraggio quanto avevano appena detto…ma loro il coraggio lo avevano eccome. Avevano anche il coraggio di accanirsi, spesso in superiorità numerica, nei miei confronti e a lasciarmi spesso a terra coperto di lividi e graffi. Ma, ehi, ciò che non ti uccide ti fortifica, no?
    Quella mattina però proprio no, non potevo: provai a tirar dritto e, accompagnando il tutto con un gesto della mano che lasciasse intendere la mia volontà, dissi:

    Non oggi ragazzi, a voi penserò domani!

    Avevo un fare spavaldo, come mio solito. Non che me lo potessi permettere: la maggior parte delle volte, come ho detto, le prendevo. Ma forse me lo meritavo: era il prezzo che dovevo pagare per le scelte di mio padre. Per la sua codardia, dovevo pagare pegno proprio io. E ora la mia missione era proprio quella di rimediare ai suoi errori: forse se quei bulletti, se le persone mi avessero visto tornare con un coprifronte avrebbero smesso di infastidirmi, di chiamarmi Koeda, di assalirmi per le colpe di qualcuno che non ero io e che per lo più odiavo pesantemente.
    In ogni caso, la mia risposta non doveva esser piaciuta particolarmente ai tre bulletti da cui erano provenute le parole di scherno, poiché uno di loro senza che io potessi accorgermene raccolse un sasso da terra e, continuando a canzonarmi, lo scagliò violentemente contro di me.
    Se avessi prestato attenzione, se avessi diretto il mio sguardo verso di loro piuttosto che sulla direzione da intraprendere, forse avrei potuto accorgermi del proiettile che volava ad alta velocità verso di me. Ma così non fu: il sasso mi colpì tra mento e bocca, aprendo un vistoso taglio sul volto. Il sangue prese a fuoriuscire copioso mentre mugugnavo per il dolore e con la mano provavo a tamponare la ferita e a limitare così il sanguinamento.
    Per la seconda volta nella stessa mattinata, gli occhi mi si inumidirono. Questa volta non per la commozione, ma piuttosto per la frustrazione e per l’impotenza che provavo nei confronti di quei tre.

    Ho detto: non oggi, ragazzi.

    Mormorai a denti stretti, senza accertarmi che effettivamente mi avessero sentito. Poi, pulendomi il sangue con l’avambraccio, proseguii con passo svelto in direzione dell’accademia.
    Non ricordo con esattezza il mio ingresso, né come effettivamente giunsi in aula: ero troppo turbato per quanto era appena successo e, piuttosto che concentrarmi su dove stessi effettivamente andando o cosa stessi facendo, continuavo a rimuginare su quei tre bulletti, su quanto mi sarebbe piaciuto fermarmi e dirgliene quattro. Ma avevo cose ben più importanti a cui pensare, cose che forse sarebbero servite a convincere loro e tutti gli altri che io non ero come mio padre, che avevo scelto una via diversa, quella giusta.
    Senza nemmeno accorgermene mi ritrovai di fronte alla porta dell’aula in cui si sarebbe tenuto l’esame. Poggiai sopra la mano e con un gesto deciso l’aprii, sporgendo la testa per esplorare il contenuto della stanza. La classe era lì al completo: mancavo solo io. Sentivo i loro sguardi addosso e qualcuno mormorò anche quel soprannome tanto odiato, ma decisi di non dar peso alla cosa e di raggiungere la mia postazione fingendo d’esser distratto e di non curarmi di coloro che mi stavano attorno. In realtà, li conoscevo bene: erano i compagni che mi avevano circondato per tutti quegli anni di accademia e che ora, come me, si accingevano a sostenere l’esame genin. Chissà cosa passava per la loro mente? Aaaah, perché tutto d’un tratto mi importava di cosa pensavano gli altri? Dovevo rimanere concentrato e pensare solo ad ottenere il massimo dei risultati.
    In ogni caso, il flusso dei miei pensieri venne prematuramente interrotto dall’aprirsi improvviso della porta dell’aula. All’unisono lo sguardo mio e dei miei compagni si spostò ansioso sull’uscio per cercare di scoprire chi, tra i sensei dell’accademia, si sarebbe occupato dell’esame genin.
    Ogni aspettativa venne spazzata via, la mia sicuramente: di fronte a noi si palesò quello che sembrava essere solo una pallida ombra di un ninja, un bunshin uscito male. Non era solo la manica penzolante a dare quell’idea, ma soprattutto lo sguardo vacuo e il fare poco entusiasta e disilluso del sensei. Arricciai il naso alla sola vista di quell’uomo: potevo sentire quel patetico olezzo di rimpianti e rimorsi. Lo stesso che caratterizzava mio padre. La odiavo, odiavo quella “puzza”. Mi ero aspettato di trovare di fronte a noi un fiero ninja di Kiri, qualcuno che avesse parecchie storie rocambolesche da raccontare e capace di trasmettere entusiasmo per il futuro ad una classe di giovani diplomandi. Quello che avevamo ottenuto, invece, era un ninja che forse aveva qualche racconto interessante alle spalle (come avesse perso quel braccio, ad esempio), ma che certamente non era capace di trasmettere entusiasmo e fiducia. Sprofondò con fare disilluso e stanco sulla sedia di fronte alla cattedra e in quel frangente mi ricordò il modo in cui mio padre si accasciava sulla poltrona alla fine della sua giornata lavorativa. Una smorfia si dipinse sul mio volto come conseguenza di quell’associazione, ma decisi comunque di dare un’occasione a quell’uomo e di non farmi annebbiare da giudizi prematuri.

    Avanti, sentiamo cosa avete da dire. Ci sono tanti modi onesti di guadagnarsi da vivere, perché avete scelto di fare proprio il ninja?

    Spalancai gli occhi. Mi ero aspettato un test teorico, esercitazioni riguardanti le tecniche ninja e magari addirittura uno scontro con altri studenti. Mai, mai mi sarei aspettato una domanda così personale per aprire l’esame genin. O magari non faceva nemmeno parte dell’esame in sè, forse era solo una mera curiosità del sensei.
    Eppure Kishita-sensei aveva colto nel punto e mi aveva costretto a farmi una domanda la cui risposta avevo sempre dato per scontata. Perché la vita del ninja?
    Continuavo a ripetermi quella domanda in testa, mentre mi guardavo intorno per carpire le reazioni dei miei compagni di classe. Poi realizzai: dovevo essere il primo. Come sempre. Qualunque risposta giunta dopo la prima avrebbe avuto più possibilità di perdersi nel marasma delle altre risposte o di assomigliare in qualche modo alle altre. La prima risposta sarebbe stata vitale e doveva essere mia. Ma d’altro canto dovevo fare in modo che la mia risposta fosse qualcosa di sensato e sincero, poiché ero certo che il sensei si sarebbe accorto certamente se avessi risposto con frasi fatte e nozioni teoriche da accademia.
    Quasi senza volerlo mi alzai in piedi con la schiena dritta, il petto in fuori e le mani congiunte appena sopra il sedere, come si conviene ad un vero ninja.

    Il mio nome è Hoozuki Seijo, 15 anni.
    Con il suo permesso, sensei, vorrei provare a rispondere alla sua domanda.
    Essere un ninja significa prima di tutto avere a cuore la propria terra, il proprio Paese.
    Significa esser pronti a ricambiare il debito che si ha nei confronti del villaggio.
    Significa proteggere le persone che ne fanno parte come facessero parte della propria famiglia.
    Significa esser pronti a sacrificare se stesso e…il proprio corpo per il bene comune e del villaggio.
    Esser ninja, Kishita-sensei, non è un modo per guadagnarsi da vivere, non è un lavoro come un altro. E’ una vocazione, una via prestabilita dal destino per alcuni individui straordinari.
    Per chi sente questo richiamo, non esiste altro modo per “guadagnarsi da vivere”. Per alcuni individui poi, che discendono da chi ha fatto la storia di questo villaggio, quel richiamo è ancora più forte e spesso prende la forma di una vera e propria responsabilità morale.


    Dissi, terminando il mio discorso affannato e ansimante. Avevo messo tutto me stesso in quella risposta e in effetti in più di qualche passaggio ero andato molto sul personale. Non potevo fare a meno di pensare a mio padre, mentre rispondevo in quel modo. Aveva fallito la sua responsabilità morale e voltato le spalle al clan e al villaggio intero. Non potevo fare a meno di pensare a lui come ad una sorta di mukenin inetto. Un ninja traditore, senza esser ninja.
    Ma forse dovevo ringraziare anche lui e la sua inettitudine se ero arrivato fino a lì con tanta decisione.
    Per ora non mi restava altro che guardare Kishita-sensei e attendere un suo riscontro rispetto alla mia risposta.
     
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    II


    Kishita ascoltò attentamente le parole di quel suo particolare allievo. Labbro spaccato di fresco, aria trasandata evidentemente scossa, con così tanta grinta da poterne vendere a quel branco di smidollati dei suoi compagni di classe. Ma ciò non bastò ad impressione l'apatico sensei. Tuttavia creò delle crepe nella sua corazza di apatia perchè l'irruenza e la sfrontatezza con cui Seijo Hozuuki parlò misero a dura prova le sua capacità di autocontrollo. Avrebbe voluto alzarsi e urlagli contro che non serve a niente riempirsi la bocca di belle parole, che fuori dall'accademia ad attenderli c'è un mondo cruento e pieno di sofferenze e di morte. Ma quale vantaggio avrebbe ricavato da ciò? Sarebbe andato incontro a una lavata di capo da parte dei suoi superiori e, dato il temperamento del giovane, sarebbe nato un dibattito alquanto acceso, prolungando inutilmente quella giornata già troppo pesante.

    Trasse un profondo respiro e con gli occhi socchiusi, oscillando sulla sua comoda sedia, proseguì. < Siediti pure Seijo. Avanti un altro. >

    Andò avanti così fino a quando non ebbe sentito tutti. Alcuni erano davvero lì senza sapere cosa stavano per diventare. Li avrebbe dovuti bocciare solo per questo e togliere carne fresca per quella mattanza mondiale che chiamano guerra? Assolutamente no. Che fossero i grandi capi a prendere decisioni per smetterla di mandare al fronte ragazzetti imberbi.

    Quando quel susseguirsi di vuote parole e ostentati ideali ebbe termine, il sensei potè procedere a distribuire il test teorico previsto per l'ammissione al grado di genin.

    < Avete un'ora di tempo per rispondere a queste domande. Cominciate. >

    Scaduto il tempo, Kishita recuperò i manoscritti dei suoi allievi e diede loro un'ora di pausa per rinfrescare la mente e prepararsi all'esame pratico. Nel frattempo, egli avrebbe controllato che non ci fossero situazioni particolari ostiche alla promozione degli studenti come, per esempio, compiti in bianco o totalmente errati.

    Gli allievi tornarono in aula puntuali, sotto lo sguardo assente ed annoiato del loro sensei, il quale, nel frattempo, aveva messo mano a un pacchetto di cialde di pane salate, sottili e fragranti. Terminò di mangiare con calma, guardando un punto indefinito fuori la finestra. A tratti, il sole riusciva a filtrare i propri raggi attraverso il manto di nuvole che avvolgevano il cielo, oscurandolo.

    < La prossima fase sarà determinante per il vostro successo in questa giornata. Dovrete venire qui alla cattedra e spiegarmi una delle tre tecniche che avete imparato e poi mostrarmi di essere in grado di eseguirla correttamente. Per semplicità non vi chiederò la Kawarimi, ma mi limiterò alla moltiplicazione e alla trasformazione. Chi comincia? >
    Kishita provò a non lanciare un'occhiata provocatrice, ma inevitabilmente il suo sguardo cadde su quell'Hoozuki dallo spirito tanto bollente.

    Il test che mi hai inviato per mp lo devo ancora leggere, ma sono sicuro che sarai stato bravo. Controllerò più tardi e continueremo quella parte di esame per mp. Qui, nel primo post da te scritto, sei stato davvero in gamba e difatti ti ho accorciato di un post l'esame, in quanto meriti di entrare il prima possibile nel vivo del gdr.
    Ora ruola pure lo svolgimento di questa parte, stando ben attento a non essere autoconclusivo nell'esecuzione della tecnica. Starà a me decidere se il tuo tentativo andrà in porto o meno, tutto dipenderà dal modo in cui descriverai la messa in pratica del jutsu.
     
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    Grazie :)


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    Pensato Seijo
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    Finii la mia filippica sul dovere morale che investe la via del ninja ansimante e tremante per l’emozione. L’autocontrollo, dopotutto, non era mai stato il mio forte..
    Puntai le mie iridi color del rame dritte su Kishita-sensei, scrutandolo attentamente e cercando di scorgerne segni di approvazione. Nulla: l’insegnante d’accademia nonché ninja di Kiri era rimasto impassibile durante tutto il mio piccolo monologo. Eppure, anche se solo per un istante, mi era sembrato di scorgere una scintilla nei suoi occhi e la sua bocca aveva preso una piega strana, quasi a voler trattenere una ipotetica risposta alle mie parole. E a dire il vero, in effetti, ero proprio curioso di sapere cosa il sensei pensasse delle mie parole, quali fossero le sue riflessioni a riguardo. Insomma, mi sarebbe piaciuto che anche lui rispondesse alla sua stessa domanda.
    Al contrario, si limitò a sospirare profondamente e a dire con aria distante e distaccata:

    Siediti pure, Seijo. Avanti un altro.

    Obbedii, ma senza nascondere una certa nota di disappunto. Avevo detto qualcosa di sbagliato? Avevo dato una risposta errata? E ancora di più, poteva mai esistere una risposta oggettivamente sbagliata a questa domanda?
    Tutte queste domande mi frullavano in testa, impedendomi di porre realmente attenzione alle risposte dei miei compagni i quali, uno ad uno, esposero le loro riflessioni.
    Di tanto in tanto riemergevo dal flusso dei miei pensieri, e prestavo orecchio alle parole dei miei compagni d’accademia: era evidente che alcuni di loro non avessero la più pallida idea del perché si trovassero lì. E io? Ce l’avevo la mia idea? A quanto era parso dalla mia risposta, ce l’avevo eccome. Eppure un certo timore prese a serpeggiare nella mia testa, mentre le voci dei miei compagni si confondevano sempre più tra loro in un turbinio di risposte a cui proprio non riuscivo a dare ascolto. Dicevo, un timore s’insinuò lentamente al mio interno: avevo sempre maledetto l’inettitudine di mio padre e avevo giurato e spergiurato di voler intraprendere la via del ninja proprio per diventare esattamente il suo contrario. Eppure ora quel suo “esatto contrario” sedeva di fronte a me: disilluso, cinico e apatico. Era questo dunque il lato oscuro della via del ninja, il prezzo da pagare per potersi ritenere un uomo d’onore? Era questo ciò a cui andavo incontro superando quel famigerato esame genin?
    Queste domande mi fecero riflettere e, senza nemmeno potermene accorgere, mi ritrovai sommerso da questo genere di timori.
    Non ho idea di quanto tempo trascorsi in quello stato di trance, so solo che a farmi riemergere da quel mare oscuro di dubbi in cui stavo annegando fu il rumore stridente della sedia del sensei che strisciava sul pavimento. Kishita-sensei si alzò, accompagnato proprio da questo rumore, e afferrò un plico di fogli che prese a distribuire per la classe.

    Avete un’ora di tempo per rispondere a queste domande. Cominciate.

    Disse, dopo aver terminato il giro della classe ed essersi assicurato che tutti gli aspiranti genin avessero di fronte a loro il proprio compito.
    Cercai il suo sguardo mentre si avvicinava alla mia postazione per consegnarmi il test, ma lui non ricambiò e anzi proseguì con aria seccata a distribuire i compiti.
    Mi arresi e desistetti definitivamente dall’idea di cercare un qualche tipo di approvazione da parte sua, anche perché era giunto il momento di concentrarsi sul test: come avevo preventivato, infatti, una prima parte dell’esame genin sarebbe consistita in una parte teorica, una serie di domande a cui dar risposta.
    Come sempre, il mio obiettivo era quello di classificarmi primo e così presi ad elaborare una strategia che potesse rivelarsi vincente: decisi di evitare di rispondere alle domande in maniera seriale e sequenziale. Piuttosto optai per una lettura generale e complessiva delle domande nel loro insieme per capire da quale fosse bene cominciare e quali collegamenti potessero essere approfonditi nelle risposte. Cominciai dalla domande numero 7 e da lì mi collegai alla numero 4, proseguendo in questo modo e producendo così un compito dall’aria organica, che lasciasse trasparire al meglio quanto acquisito in questi anni di accademia. Dopo tutto, ero sempre stato un ottimo studente e i miei voti lo avevano dimostrato più volte.
    La mia strategia aveva tuttavia un punto debole: il tempo impiegato per elaborarla, per leggere tutte le domande nel loro insieme e per pensare a delle risposte il più possibile tra loro collegate aveva diminuito di conseguenza quello da dedicarsi alla scrittura vera e propria. Il risultato fu che mentre stavo ancora scrivendo la mia ultima risposta, molti dei miei compagni avevano già posato la penna sul banco. A tardare il ritiro dei compiti, seppure nei limiti di tempo stabiliti dal sensei, eravamo rimasti solo io ed un’altra mia compagna d’accademia, ancora intenti a scrivere freneticamente sul foglio. Fu a quel punto che pensai ad una nuova strategia: esattamente come prima avevo voluto rispondere a tutti i costi per primo alla domanda di Kishita-sensei per fare in modo che lui mi notasse, dovevo pensare ora a qualche stratagemma simile. Consegnare per primo ormai era fuori discussione, pertanto l’unica via percorribile era quella di consegnare per ultimo. Avrei così lasciato intendere di possedere un ottimo senso del tempo e di aver riflettuto a fondo sulle domande poste. Presi dunque a rallentare il ritmo della mia scrittura e a lanciare fugaci sguardi alla mia compagna che s’attardava come me per capire quando fosse vicina alla fine. Non appena la vidi posare la matita e rileggere le sue risposte, mi affrettai a completare la mia ultima risposta. Posai la penna a mia volta e lanciai una rapida occhiata all’orologio appeso sopra la cattedra: 59 minuti. Appena in tempo..
    Kishita-sensei passò nuovamente tra i banchi a ritirare i compiti e, di nuovo, cercai il suo sguardo per capire se avevo lasciato una qualche impressione su di lui. Ancora una volta, però, non sembrò scomporsi troppo e si limitò a ritirare il mio compito esattamente come aveva fatto per tutti gli altri miei compagni. Infine, dopo aver raggruppato e posato i test completati sulla cattedra, annunciò che ci avrebbe concesso un’ora di pausa prima della seconda parte dell’esame.
    Fui ben lieto della notizia: tutto quel pensare alle risposte e quel crogiolarmi nei miei stessi dubbi mi aveva mentalmente provato e avevo proprio bisogno di prendere un po d’aria.

    Mi alzai dalla mia postazione e mi diressi con passo svelto verso il giardino esterno, maledicendomi per non aver portato con me uno snack da consumarsi in questa pausa per recuperare un po di energie.
    Ad accogliermi, all’esterno, ci fu un pallido raggio di sole che timidamente trafiggeva la nebbia e illuminava debolmente un vecchio tronco abbattuto. Decisi che quello era il posto perfetto per trascorrere la pausa e mi ci fiondai, mentre i miei compagni d’accademia si raggruppavano tra loro e si confrontavano in merito alle risposte date nel test. Li guardavo dalla distanza mentre ridevano e scherzavano tra loro..Come facevano ad essere così spensierati? Certe volte mi domandavo se fossi l’unico su questa Terra ad essere costantemente dilaniato da dubbi e paranoie.
    Sentii la mia pancia brontolare per la fame, mentre pensavo a quale prova ci attendesse al nostro rientro, e improvvisamente fui interrotto in questo flusso di pensieri da una voce dolce e femminile.

    Koeda-san!

    Arricciai il naso e strinsi i denti, istintivamente, poiché era quello l’effetto che mi faceva il semplice udire quell’odioso soprannome. Eppure, l’intonazione non era quella canzonatoria a cui ero abituato ma era al contrario piuttosto dolce e a tratti materna. Sollevai lo sguardo per capire da chi fosse giunto il richiamo e scorsi di fronte a me Kirara-chan, anche lei flebilmente illuminata da quel timido raggio di sole. Si trattava di una delle mie compagne di classe, ma non sapevo molto di lei. O meglio, non sapevo molto di nessuno dei miei compagni di classe. Eppure ricordavo di lei la sua determinazione, che mi aveva sempre colpito: al contrario della maggior parte delle ragazze dell’accademia, spesso timide e sulle loro, Kirara-chan era un’aspirante kunoichi dai modi fermi e decisi eppure sempre molto cortesi e dolci.

    Odio quel nomignolo!

    Dissi contrariato e senza nascondere minimamente il mio disappunto.

    Mi è piaciuta molto la tua risposta.

    Disse lei senza badare a quanto avevo appena detto.

    Beh, per me l’importante è che sia piaciuta a Kishita-sensei..

    Mhm..Per certi versi vi somigliate eheh

    Cosa intendi dire?

    Dissi, abbassando lo sguardo un poco imbarazzato.

    Non saprei…Forse questo modo di fare cinico e distaccato che avete. Da cosa vi proteggete? Da cosa ti stai proteggendo, Koeda-san?

    Mi domandò, piantando le sue iridi color dello smeraldo nelle mie.

    Io..ecco…non lo so.

    Risposi, cercando in tutti i modi di non incrociare il suo sguardo inquisitorio e stringendomi nelle mie spalle.

    Sai, forse capisco più lui che te. Voglio dire: ci hai mai pensato? Noi siamo qui oggi a sostenere un esame in cui ci viene richiesto cosa significhi essere un ninja. Eppure non ne abbiamo veramente idea! Abbiamo passato questi anni di accademia a studiare le grandi guerre del passato, la teoria delle tecniche ninja e le strategie da adottare nelle missioni. Ma non sappiamo cosa significhi essere un ninja..sul campo. Guarda lì, ad esempio.

    Disse con fare innocente, mentre allungava il suo braccio e col dito puntava ad uno dei bersagli che popolavano il giardino esterno dell’accademia. Seguii il suo dito e fissai il bersaglio che utilizzavamo per allenarci nel lancio di kunai e shuriken, senza però capire dove volesse arrivare.

    Quel bersaglio è solo paglia tenuta insieme da un po di spago e legno. Ma a volte, lanciando kunai, ho pensato cosa si dovesse provare a mirare ad una persona vera, in carne ed ossa.
    Credo…credo serva coraggio, Koeda-san. E anche un poco di distacco emotivo, come quello che avete tu e Kishita-sensei. Da questo punto di vista, un po ti invidio..


    Fece una pausa e finalmente abbassò anche lei lo sguardo, intristita.

    Secondo te cosa si prova, Koeda-san, a guardare negli occhi un uomo che muore sotto i tuoi colpi?

    Io…

    Stavo per rispondere ancora una volta che non lo sapevo, ma le parole non mi uscivano di bocca. Cosa diamine stava combinando Kirara? Perché tutte quelle domande? Io mi ero seduto sul tronco in cerca di pace e tranquillità e lei era arrivata lì a scombussolare tutto quanto con i suoi discorsi sconclusionati. Fortunatamente non mi lasciò il tempo di completare la frase, poiché ancora una volta cambiò repentinamente argomento e riprese la parola, sollevandosi dallo sconforto in cui sembrava precipitata appena un attimo prima.

    Uff. Tra poco ci tocca la parte pratica.

    Disse mentre armeggiava con i suoi lunghi capelli arancioni, nel vano tentativo di dar loro una sistemazione.

    Con tutti questi capelli..Uff! Non so più dove metterli. Sono sicura che durante la prova mi finiranno sotto il naso. Inizierò a starnutire a più non posso e verrò bocciata, ecco!

    Mi strappò un sorriso, mentre cercavo di immaginare la scena. Ma mentre pensavo di potermi finalmente rilassare perché al sicuro dai suoi discorsi strampalati, ecco che si piegò verso terra e raccolse un ramoscello, probabilmente staccatosi dal tronco su cui sedevamo.

    Vedi? Questo è solo un ramoscello..

    Disse, per poi estrarre un kunai e cominciare ad intagliare il rametto, rendendo più sottile e levigato.

    Ma, con un po di lavoro, può diventare…

    Accompagnò le sue parole con i fatti: ripose il kunai, strinse con la destra la sua creazione di legno e con la sinistra afferrò i suoi capelli. Fece fare a questi ultimi un paio di giri intorno alla sua testa, fino a formare un perfetto chignon e infine li infilzò con l’asticella di legno appena creata, fissandoli.

    Qualsiasi cosa!

    Concluse la sua frase, mentre sistemava accuratamente con ambo le mani la sua acconciatura.
    Senza aggiungere altro si alzò dal tronco e si esibì nel più bel sorriso che avessi mai visto, poi si voltò con grazia e sgambettò via verso le sue amiche.
    Io rimasi lì, come un pesce lesso. Non ero sicuro di aver compreso tutto quanto e lei di certo non mi aveva aiutato, saltando di discorso in discorso e facendo considerazioni senza un senso apparente. Ma forse ero io quello a mancare della sensibilità necessaria per comprendere appieno le sue parole. In ogni caso, mi sentivo molto meglio: quella chiacchierata sgangherata mi aveva ricordato da vicino gli interminabili pomeriggi passati con mia madre. La sua cura, il suo affetto, la sua premura…
    Scossi la testa, deciso a togliermi dalla testa tutte quelle sciocchezze: dopo tutto dovevo rimanere concentrato e poco mancava che la prova pratica cominciasse.
    Presto detto presto fatto, poiché mentre pensavo a recuperare la concentrazioni vidi i miei compagni rientrare nell’edificio, segno ormai che la pausa era terminata. Così mi alzai a mia volta dal tronco su cui avevo passato praticamente tutta quanta l’ora di riposo e, senza troppa fretta, mi diressi verso l’aula in cui ci attendeva Kishita-sensei. Volevo aspettare che tutti quanti fossero entrarti, per non dover scambiare altre parole con i miei compagni di classe: già la conversazione con Kirara mi aveva lasciato frastornato e confuso e non volevo peggiorare ulteriormente la situazione.
    Al mio rientro, trovai i miei compagni già seduti alle loro postazioni e Kishita-sensei intento a finire il suo snack con lo sguardo assorto fuori dalla finestra. Sembrava proprio che non gli importasse: aveva avuto tutta un’ora per poter consumare la sua merenda, eppure aveva deciso di farlo proprio a ridosso della ripresa dell’esame. Forse un poco lo faceva apposta, forse si impegnava per peggiorare la sua area trasandata e distaccata. Lo fissai, rimanendo per qualche istante sull’uscio ma ovviamente non ottenni riscontro da parte sua. Così decisi di risedermi al mio banco e di attendere che il sensei si degnasse di far riprendere l’esame.

    La prossima fase sarà determinante per il vostro successo in questa giornata. Dovrete venire qui alla cattedra e spiegarmi una delle tre tecniche che avete imparato e poi mostrarmi di essere in grado di eseguirla correttamente. Per semplicità non vi chiederò la Kawarimi, ma mi limiterò alla moltiplicazione e alla trasformazione. Chi comincia?

    Irruppe d’improvviso, dopo aver terminato il suo snack.
    Ma accadde qualcosa di diverso: questa volta guardava dritto verso di me. Non in maniera fissa e diretta, sembrava piuttosto che si stesse sforzando di non farlo eppure non potesse farne a meno. Decisi dunque di raccogliere la sfida, dopo tutto per me si trattava di un invito a nozze.
    Mi alzai dalla mia postazione e ripetei il mio nome e cognome, mentre mi dirigevo di fronte alla cattedra. Annunciai con fermezza che mi sarei esibito nella tecnica della moltiplicazione, quella in cui andavo più forte.
    Socchiusi gli occhi, per agevolare la concentrazione, e presi ad impastare il chakra all’interno del mio corpo. Una volta compreso d’averne accumulato abbastanza per l’utilizzo della tecnica, unii le mie mani nei sigilli della pecora, del serpente e della tigre. Intanto nella mia mente cercavo di tener fissa l’immagine della mia fisionomia, così da esser certo di ricreare delle copie fedeli, seppure illusorie, di me stesso.
    Avrei potuto limitarmi a creare una sola copia, ma per la mia smania di dimostrare sempre qualcosa a qualcuno e di voler essere primo a tutti i costi decisi di provare a crearne tre tutte in una volta. Dopotutto, seppure era vero che il ramo della mia famiglia era stato disconosciuto dagli Hoozuki, avevo ereditato dal mio clan un eccellente controllo del chakra. E buon sangue non mente: quella era un’eredità che a tutti gli effetti provava la mia appartenenza di diritto al clan.
    Completati dunque i sigilli, tentai di far comparire al mio fianco tre copie identiche di me stesso, ma la mia attenzione rimaneva fissa su Kishita-sensei alla ricerca della sua approvazione.



    CITAZIONE
    Seijo Hoozuki

    Resistenza: 100/100
    Stamina: 100 - 5 = 95/100

    Azioni:

    1) Tecnica della moltiplicazione del corpo (creazione 3 copie)
    2)
    3)
    4)
     
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    III



    <molto bene Seijo.>

    Gli occhi cremisi di Kishita-sensei passavano da una copia all'altra dell'allievo Hoozuki, cercando un'imperfezione, una sbavatura da potergli contestare. Avrebbe avuto una gran voglia di fargli la morale e di ribattere alle sue belle parole di prima sbattendogli in faccia la sua inettitudine come ninja. Invece, suo malgrado, dovette lasciare chiusa la sua vena di sadico moralista. Anche quella giornata stava per lasciargli l'amaro in bocca. Anche quella notte, Kishita sarebbe andato a dormire stanco, afflitto e tormentato dagli spettri del suo infelice passato.

    A volte si chiedeva se non dovesse fare qualcosa per riprendere in mano la sua vita, tentare di dare un senso a quegli anni che gli restavano da vivere. Aveva davvero intenzione di continuare a trascorrere il suo tempo tra l'accademia, la sua casa e il bar dove andava a bere, ponendo il proprio fegato a una sfida irrisolvibile se non con il suo collasso?

    < Vai a sedere Seijo. Gli esiti degli esami saranno comunicati quando tutti avranno svolto quest'ultima prova >

    Un sospiro accompagnò quelle parole. Aveva ancora ventuno allievi da valutare. Seijo era stato promosso sia perchè si era dimostrato un abile utilizzatore del chakra sia perchè il suo test era privo di errori. Le risposte erano state calibrate e misurate risultando coincise ma complete, dando un tono di armonia e omogenietà a tutto il test. Tra tutti quegli allievi, Seijo sembrava il più promettente come genin. "Voglio proprio vedere dove sarà fra un anno." Pensò cupamente Kishita, ma per quanto volesse restare freddo come il marmo, nel profondo del suo animo sperava di non trovare una lapide con il nome di quel ragazzino nel cimitero di Kiri. Almeno non nei mesi immediatamente successivi alla sua promozione a genin.

    Involontariamente, quando gli esami furono finiti, si ritrovò a chiamarlo in disparte. Per alcuni secondi lo fissò restando in silenzio. Si spostò una ciocca di capelli neri dal volto e prese fiato. Aveva difficoltà ad esprimersi e si pentì di aver assecondato il recondito desiderio di parlare con quel -ormai- genin. Fu tentato dall'idea di andare via senza proferir parole, ma quel briciolo di buonsenso che gli restava glielo impedì.

    < Ascoltami Seijo > esordì dopo quel lungo silenzio.< Sei diverso da tutti i tuoi compagni. Tu hai del ponteziale nascosto. E no, non parlo solo della tua, chiamiamola fortuna, capacità innata. Tutti sappiamo chi sei e da chi discendi, ma se ho scelto di parlare con te non è la tua naturale propensione alle arti ninja. C'è qualcosa nel tuo cuore che è più forte di qualsiasi jutsu. >

    Kishita spostò lo sguardo oltre, verso le finestre che costeggiavano l'aula rimasta vuota.

    < Credo che sia passione quella brucia nel tuo cuore. No, anzi, è più forte della passione. C'è "ardore". Sei un ragazzo che arde dalla voglia di diventare uno shinobi eccezionale. Tuttavia, devi stare attento a non restare scottato dalla stessa fiamma dalla quali trai energia. Da oggi in poi camminerai su una corda molto sottile. Scivolare e perdere l'equilibrio sarà l'ordinario per te. La paura che si spezzi la tua compagna inseparabile di letto, come la luna con la notte. >

    Gli poggiò una mano, l'unica che aveva, sulla spalla.

    < Ti auguro buona fortuna per tutto. > E con un mezzo sorriso stampato in volto andò via. Forse quella notte avrebbe dormito meglio, con il cuore più leggero per aver fatto, una volta tanto, la cosa giusta.

    Procedi con l'ultimo post e poi avrai tutte le ricompense della promozione
     
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    Narrato
    Parlato Seijo
    Pensato Seijo
    Parlato altrui

    Molto bene, Seijo.

    Disse Kishita-sensei dopo aver scrutato a lungo le tre copie illusorie che stanziavano al mio fianco. Mi era sembrato che osservasse con attenzione ognuna di esse, probabilmente alla ricerca di una qualche imperfezione. Ma io, dal canto mio, sapevo d’aver fatto le cose in modo corretto. Se si fosse trattato della tecnica della trasformazione forse avrei potuto avere qualche dubbio in più sulla sua buona riuscita, ma la tecnica della moltiplicazione…no quella no. L’avevo sempre ritenuto un jutsu particolarmente utile e versatile e per questo lo avevo voluto approfondire fin dalla prima lezione in cui mi era stato insegnato. Avevo accompagnato il mio apprendimento con intere giornate di pratica e allenamento su quella tecnica, convinto di volerla padroneggiare quanto meglio. E oggi raccoglievo i frutti di quei pomeriggi così intensi e sfiancanti: oggi avevo eseguito la tecnica della moltiplicazione con un’efficacia che mai mi era riuscita, complice forse anche l’adrenalina da esame.
    E così, certo del buon risultato ottenuto, mi adornai di un sorrisetto beffardo mentre guardavo Kishita-sensei spostare le sue iridi da una copia all’altra alla ricerca di una qualche imperfezione.
    Si arrese poco dopo:

    Vai a sedere Seijo. Gli esiti degli esami saranno comunicati quando tutti avranno svolto quest'ultima prova.

    Mi esibii in un lieve inchino per accompagnare il mio congedo, dunque sciolsi la tecnica facendo svanire in una nuvoletta di fumo le copie create e infine mi diressi con passo lento e inorgoglito la mia postazione. Il mio sguardo si diresse involontariamente verso Kirara-chan, la quale ricambiò e mi strizzò un occhiolino di complicità. Feci un mezzo sorriso di risposta e distolsi lo sguardo, un poco imbarazzato.
    Ora toccava ai miei compagni dar prova delle loro capacità: uno ad uno si avvicendarono alla cattedra e si esibirono, chi meglio chi peggio, nelle tecniche richieste dal sensei. Io, dal canto mio, non prestai grande attenzione e anzi rimasi soprappensiero alla mia postazione, crogiolandomi nel ricordo della mia prova. Poi però mi venne da pensare alle parole di Kirara:

    Mhm..Per certi versi vi somigliate eheh

    Queste erano state le sue parole e in un certo qual senso mi tormentavano, fin dal primo momento in cui le avevo udite. Come ho già detto, era mia ferma intenzione diventare l’esatto opposto di mio padre. Ma d’altro canto, non volevo nemmeno diventare disilluso e pieno di rimorsi come lo era Kishita-sensei. Volevo essere altro, altro ancora: un fiero ninja della Nebbia. Ma con quale pretesa? Pensavo forse che Kishita avesse il desiderio di finire ad insegnare in accademia senza un braccio? Era chiaramente un effetto collaterale e molto probabilmente il suo sogno iniziale non doveva discostarsi troppo dal mio.
    Per certi versi ci somigliavamo…e io ne avevo il terrore.
    Per un istante ebbi una visione chiara e distinta di fronte ai miei occhi di un me più cresciuto, con il coprifronte ben stretto in testa, ma senza un braccio e circondato da allievi. Sussultai silenziosamente din fronte a quella visione, ma poi guardai meglio: stavo sorridendo. Mi mancava un braccio ed ero in accademia e non sul campo di battaglia, ma sorridevo.
    Mi domandai come mai la mia testa mi stesse facendo vedere simili immagini e soprattutto perché il mio subconscio trovasse la vita di Kishita-sensei un modo altrettanto onorevole di servire Kiri. Mi ero sempre detto che la via del ninja andava percorsa in missione, dove l’azione la fa da padrone, e non dietro a scrivanie o nelle aule. Eppure quella immagina distorta di un me del futuro era felice anche così.
    Scossi la testa, cercando di liberarmi da quell’immagine ma intanto il ricordo delle parole di Kirara si faceva più intenso ancora:

    Mhm..Per certi versi vi somigliate eheh

    Mi risuonò ancora in testa. Fu allora che mi accorsi che era giunto proprio il turno di Kirara: si alzò decisa dal suo banco e si posizionò di fronte a Kishita, che dal canto suo la osservava distaccato come aveva fatto con tutti noi fin dal principio. Si presentò al sensei con la sua solita aria decisa e determinata e senza perdere ulteriore tempo compose i sigilli necessari all’esecuzione della tecnica della trasformazione e assunse le sembianze proprio di Kishita-sensei. Distesi la bocca in una smorfia di approvazione mista a sorpresa: non pensavo che anche Kirara avesse raggiunto quel livello di preparazione e controllo del chakra. Venne congedata anche lei e, soddisfatta, potè riprendere la sua postazione. Anche in questo caso, ci scambiammo un’occhiata di complicità e con un cenno del capo mi congratulai silenziosamente con lei.
    Precipitai nuovamente nel mio solito stato di trance, rapito dal flusso dei miei stessi pensieri e riuscii a riprendermi solo quando sentii Kishita-sensei annunciare che l’esame era terminato e nominare gli allievi promossi. Il mio nome, ovviamente, figurava tra i promossi ma ciò che più contava per me era essere arrivato primo, aver lasciato una buona impressione nel mio sensei e nei miei compagni, specialmente Kirara.
    Mi alzai dalla mia postazione, mentre i miei compagni facendo lo stesso già si raggruppavano tra loro per scambiarsi strette di mano e abbracci o, al contrario, consolazioni e pacche di conforto. Guardai verso Kirara, ma lei era già stata rapita dalle sue amiche e non sembrava avere intenzione di degnarmi neppure di un ultimo sguardo, un ultimo saluto prima della fine della nostra avventura insieme come allievi di Kiri. Cosa mi aspettavo dopo tutto? Non eravamo mai stati grandi amici! Ci stimavamo, è vero, ma prima di quel giorno non avevamo veramente avuto grosse conversazioni se non quelle di convenienza. Eppure le sue parole di poco prima mi avevano lasciato un profondo segno addosso, come un sigillo maledetto, e ora non riuscivo più a non curarmi di lei come avevo sempre fatto con i miei compagni di classe.
    Sospirai, per la prima volta nella mia vita sofferente per non poter condividere la mia gioia e soddisfazione con i miei colleghi. Dunque, proseguii verso la cattedra e ritirai il mio coprifronte, insieme ad alcuni omaggi che venivano forniti ai neo-promossi genin. Stavo per incamminarmi verso l’uscita quando alle mie spalle sentii una voce adulta chiamarmi.

    Seijo!

    In un primo momento, continuai a fare quanto stavo facendo. Ero così poco abituato a sentire pronunciare il mio vero nome nell’ambiente accademico: tutti lì mi chiamavano Koeda, canzonandomi. Ma quando realizzai, mi voltai e di fronte a me vidi Kishita-sensei in piedi, in silenzio. Immersi le mie iridi scarlatte nelle sue cremisi e mi accorsi solo in quel momento che condividevamo anche il colore degli occhi.

    Mhm..Per certi versi vi somigliate eheh

    Di nuovo, quella frase mi tornò in mente: se era vero che gli occhi altro non erano che lo specchio dell’anima, quella somiglianza cromatica doveva significare pur qualcosa. Forse Kirara aveva ragione, dopo tutto.
    Inizia a pensare, dopo qualche istante di silenzio prolungato, di essermi sbagliato, di aver sentito male. Forse nessuno aveva chiamato il mio nome e ora mi sentivo terribilmente stupido anche solo per il fatto d’essermi fermato e voltato.

    Ascoltami Seijo.

    Irruppe Kishita-sensei, spazzando via i miei dubbi.

    Sei diverso da tutti i tuoi compagni. Tu hai del potenziale nascosto. E no, non parlo solo della tua, chiamiamola fortuna, capacità innata. Tutti sappiamo chi sei e da chi discendi, ma se ho scelto di parlare con te non è la tua naturale propensione alle arti ninja. C'è qualcosa nel tuo cuore che è più forte di qualsiasi jutsu.

    Tutti sanno chi sono e da chi discendo. Quelle parole mi colpirono particolarmente: le scelte di mio padre e la scomunica del clan non erano riusciti dopo tutto a cancellare il mio sangue: io ero un Hoozuki.
    Ascoltai le parole del Sensei con grande attenzione, eppure senza capire dove volesse andare a parare esattamente. Mi era sembrato d’esser tornato su quel tronco, seduto con Kirara. E ancora una volta mi stavo sentendo incapace di comprendere appieno le parole del mio interlocutore, come se di nuovo mi mancasse quella sensibilità sociale necessaria. Ma ora ero curioso: volevo sapere di cosa stesse parlando Kishita-sensei: cosa era quel qualcosa nel mio cuore di così potente? Una nuova abilità innata, un antico demone sigillato al mio interno?
    Attendevo con ansia il proseguimento di quel discorso, ma Kishita-sensei attese dei secondi che mi parvero interminabili prima di andare avanti. Inoltre spostò il suo sguardo verso la finestra, come incapace di sostenere ulteriormente il mio sguardo nel rivolgermi quelle parole. Fu in quel momento che capii quale sforzo stava costando al mio maestro parlarmi in quel modo, eppure non riuscivo a comprendere appieno quali fossero i suoi tormenti interiori.

    Credo che sia passione quella brucia nel tuo cuore. No, anzi, è più forte della passione. C'è "ardore". Sei un ragazzo che arde dalla voglia di diventare uno shinobi eccezionale. Tuttavia, devi stare attento a non restare scottato dalla stessa fiamma dalla quali trai energia. Da oggi in poi camminerai su una corda molto sottile. Scivolare e perdere l'equilibrio sarà l'ordinario per te. La paura che si spezzi la tua compagna inseparabile di letto, come la luna con la notte.

    Quelle parole suonarono come un potente monito al mio interno. Ero lusingato dalle sue parole, dopo tutto altro non significavano se non che ero riuscito nel mio obiettivo principale: farmi notare da lui ed essere il primo, il migliore. Eppure in qualche modo anche inquietato: questo suo discorso sembrava pieno di rimorso, rimpianto e richiami alla sua vita personale. Non potevo immaginare che cosa il mio sensei avesse passato nei suoi anni d’oro da shinobi, cosa lo avesse ridotto a questo modo, ma avevo il terrore che quelle sue parole stessero suggerendo che la stessa cosa poteva succedere e anzi sarebbe successa anche a me.

    Non volare troppo vicino al sole.

    Pensai. Forse era questo che intendeva: dovevo bilanciare adeguatamente la mia grinta e la mia voglia di dimostrare il mio valore con la prudenza e la saggezza necessarie per sopravvivere a lungo.
    Pensai a quanto affetto in realtà quelle parole dall’apparenza fredda stessero nascondendo: ci voleva premura e coraggio per aprirsi in quel modo ed io fui orgoglioso di essere proprio il destinatario di quel discorso. Strinsi il coprifronte nelle mie mani, incapace di ribattere qualunque cosa al discorso del mio sensei, eppure i miei occhi per la terza volta nella stessa giornata si stavano inumidendo, mostrando debolezza.

    Ti auguro buona fortuna per tutto.

    Grazie!

    Risposi. Quella era la parte facile dopo tutto: rispondere a quell’ultimo augurio con un ringraziamento mi venne quasi automatico, ma forse il grazie era più rivolto alle parole precedenti. Avrei voluto approfondire, chiedere, imparare ancora ma invece mi limitai a lanciare quel grazie mezzo distaccato nel silenzio imbarazzante che seguì il discorso di Kishita sensei.

    Mhm..Per certi versi vi somigliate eheh

    Risuonò un’ultima volta nella mia testa, prima che io mi voltassi e salutassi il sensei con un cenno della mano.
    Presi la via dell’uscita e mi incamminai verso casa, felice.


    WOW! Grazie mille per quest'accademia, davvero bella da ruolare!
     
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