Your lie in Shūtsuki

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    Ok, non ero per niente una cima nella lettura e nella comprensione del linguaggio ninja. Trovavo reali difficoltà nel dialogo con gli altri, ma tutto di me si poteva dire eccetto che fossi una persona silenziosa o timida. Insomma, sulla nave ero quella che più andava in estasi al rumore dei cannoni e scambiavo ogni giorno chiacchiere con tutti finendo quasi per essere considerata logorroica. E qui? Beh, le uniche parole che avevo appreso erano state quelle che Escanor, gentilmente e con molta pazienza, s’era offerto di insegnarmi con un bel po’ di tempo. Studiavo il linguaggio ninja per quanto fosse complesso e totalmente diverso rispetto al mio e nel mentre mi prodigavo costantemente nel tracciare linee e mandar giù bozze. La mano sempre macchiata di nero simboleggiava il mio assoluto ardore per quell’obiettivo, nel lavoro ci mettevo l’anima e l’adoravo. Certamente non ero una disegnatrice esperta ma conoscevo molto bene le basi ed ero in grado di distinguere molto bene i diversi tratti, oltre ai nomi delle tecniche usate nella cartografia. Ero seduta su di una distesa d’erba a sonnecchiare, gambe accavallate e fiasca infilata al lato della cinta e fortunatamente piena, non ero certamente una che al posto della sveglia ricorreva ai liquori ma ogni tanto ci davo dentro. Col ventre in su e la mantellina sgualcita ero alle prese col solito viaggio nei ricordi, la faccia del vecchio Gils era nitida e fieramente ne custodivo gli insegnamenti seppur non potessi affermare la stessa cosa per i suoi denti. Mannaggia a tutte le vele, erano orrendi! Gialli, intervallati da spazi grandi quanto crateri, alcuni parevano sbriciolarsi come le molliche di pane che solitamente gli uccelli erano felici di mangiare. Persino la sua voce trasudava anzianità, la pelle incartapecorita rappresentava una brutta visione, come anche gli ultimi quattro pelucchi vibranti sulla sua testa annerita e piena di macchie. Magari per via di qualche vecchia malattia contratta in mare o di una dermatite o di chissà cosa, il vecchietto pur alla soglia degli ottant’anni dimostrava di essere un tipo gentile solo fuori dal suo lavoro, se solo foste stati con me vi sareste resi conto di quanto amasse usare la bacchetta. Agitai la mano inconsciamente, come se quel ricordo avesse agito sul mio inconscio portando il cervello ad agire, fu solo per un istante ma fu un gesto che compresi immediatamente. Un gatto nero accanto a me sobbalzò sulle quattro zampe, sgattaiolando in un cespuglio con il tintinnio del suo campanellino d’argento. Soffiò così tanto che per poco rischiò un collasso, ma essendo un gesto comune tra gatti non perse nemmeno la compostezza felina e scomparve. Il book scivolò giù dal ventre quando decisi di sollevarmi da terra, le mani resero tutto più facile e la loro stabilità agevolò il tutto. Fu un attimo il mio, lì seduta su di un telo ero in grado di ammirare una bella fetta di villaggio perché in una posizione rialzata rispetto allo stesso, e voltai poi la testa prima a destra poi a sinistra ricordandomi la vera destinazione di tutto quel verde: grandi viali alberati che si diramavano asimmetricamente come radici, tutti convergenti in un unico grande spiazzo attorno ad edificio. Panchine in legno verniciate con una sostanza impermeabilizzante per proteggerle dall’acqua, e poi fontane zampillanti e giardini in fiore.

    A quanto pare non è proprio il luogo migliore per farsi un pisolino.

    Con il palmo della mano spiattellato sulla tempia destra me ne restai un attimo in silenzio, sorridendo tra me e me per la mia stupidità, e solo a quel punto lasciando perdere il cappuccio decisi di sollevarmi completamente da terra per dare un’occhiata in zona. Arraffai tutti i miei averi con molta calma, lasciando all’esterno unicamente il book e la matita che infilai nel taschino apposito cucito sulla parte sinistra della mantella, poi con un susseguirsi di falcate decisi di avviarmi verso una zona più “movimentata” e farmi un’idea delle condizioni del luogo. Conobbi pochissimo della storia del mio villaggio, Escanor sapeva molte cose ma certamente bisognava che io apprendessi prima le basi per riuscire poi ad approfondire e farmi una buona cultura del tutto. L’amministrazione di quel villaggio non era mai stata una delle migliori, in tempi antichi pareva che fosse molto più povero e malandato di ora, ed inoltre la scarsa capacità di gestione da parte dei vari governatori non era delle più famose. Il penultimo fu uno dei perni che fece innescare grandi conflitti, passando da una ascesa trionfale ad una caduta rovinosa e ad una morte ad opera di un individuo sconosciuto. Con l’ascesa dell’attuale capo villaggio il villaggio pian piano riacquisiva forza e splendore seppur ero l’ultima nel mondo a poter fare una paragone col passato. Ero nata poco prima della morte del famoso Zero, e col fatto di essere lì da giusto un anno non avrei mai potuto realizzare quanto decente fosse diventato il paese. Tuttavia vedevo con i miei stessi occhi lo splendore di quella zona, la parsimonia e la cura di progettisti, medici, infermieri e giardinieri. Un bambino sulla sedia a rotelle sgusciò da un angolo e in una simulazione di gara automobilistica mi superò, ridacchiando spensieratamente a discapito della sua situazione fisica. Più in avanti una bambina era alle prese con una ghirlanda di fiori, tutto normale se non fosse per il berretto in lana che ne proteggeva il capo. Mi accovacciai al suo fianco colta da un sorta di istinto materno, la mantella toccò terra assieme alle mie ginocchia e assieme alla piccola passai un po’ di tempo a raccogliere fiori, dilettandomi in composizioni floreali semplici.

    Ti auguro di guarire al più presto possibile, te la regalo!

    Fu così felice di ricevere quel dono fatto insieme che per poco non si dette al pianto, ma reprimendo le lacrime mi ringraziò con i suoi occhioni umidi per poi innalzare la schiena e le gambe e correre verso l’infermiera di turno in un tripudio di profumi floreali. La fissai allontanarsi fino alla porta dell’ospedale, mi risollevai da terra e riprendendo il passo provai a fissare in alto verso le numerose coppie di finestre smistate su tre diversi piani, i mattoni esteticamente esposti per uno strano concetto di design. Decisa a rinviare il tour all’interno optai per una deviazione, lasciandomi l’enorme stabile alla sinistra con un’ampia parte di giardino sotto i miei piedi e alberi di ciliegio disposti con precisione maniacale nel terreno. Fu quello il momento in cui notai qualcuno nel punto più lontano del perimetro, piegato sulle ginocchia ad accarezzare un gatto nero, forse lo stesso che prima era fuggito sfoderando gli artigli con la schiena inarcata. E non le ci volle molto a notare la mia presenza, si sollevò prendendo tra le braccia il felino con un sorriso raggiante e l’aria di chi non ha nulla da temere.

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    Edited by Yama™ - 24/10/2016, 16:11
     
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    Quell’incontro si rivelò subito essere molto bizzarro, mentre la ragazzina mi fissava con iridi strizzate l’animale strepitò intrappolato tra le sue braccia, incapace di restar docile per più tempo. Lo accontentò immediatamente, forse pensava fossi la sua proprietaria e che fosse irrequieto proprio per il desiderio di tornare da me, ma non fu così e fuggì rapido in lontananza, fermandosi giusto un attimo col desiderio di fissarci con una coda sinuosa.

    Quindi non eri suo, mannaggia a te torna qui!

    Ma col cacchio che quello lo fece. Ah, se vi steste chiedendo se ne avessi afferrato le parole beh, la risposta è un ni. La situazione mi fu molto più chiara dai gesti che dalle parole, mi indicò con gli indici e bofonchiò qualcosa scuotendo le mani in segno di protesta. Poi si arrese al destino, lasciandolo alle sue questioni e avvicinandosi a me come un soldatino di piombo. Era convinta che potessi comprendere la sua lingua, in realtà masticavo poche parole e la sua parlantina spedita non mi aiutava certamente nel compito. “Quel gatto me la fa sempre!” disse, aspettandosi da me una pronta reazione, e continuò nell’assoluta certezza che io potessi accompagnarla nel discorso “è sempre qui ma non riesco mai a capire di chi sia”. Parlava in maniera svelta forgiando fulgidi parole il cui senso non mi era chiaro nella totalità. Nel guardarla attentamente mi accorsi del suo incarnato pallido e di come la pelle della sua gola vibrasse, corde vocali simili ad un’armonica metallica e vintage pescata da un bambino nelle esplorazioni in cantina. Posi l’indice sotto il mento esercitando su di esso uno sfregamento leggero, riuscendo perlomeno a tenere lo sguardo intorpidito sulle movenze elastiche delle sue gambe semi nude, le dita curate e il viso raggiante. Perlomeno quel chiaro e cruento crine biondo riuscì ad irradiarmi a tal punto che, grazie al cosiddetto “problem solving”, riuscii a formulare un’idea per risolvere quella differenza culturale. La mano sul mento calò leggera verso la tasca destra, misurandone l’ampiezza prima di infilarcisi agilmente al suo interno per estrarre un taccuino bruciacchiato.
    “Oh..oh! scusami mi sono fatta trasportare, pensavo fossi del luogo. Non capisci la mia lingua?” mugugnò, sollevando le spalle nel modo più brusco e buffo possibile e rallentando nel modo di parlare. Fu spontaneo un sorriso e una risata da parte mia, che provai ad accompagnare a gesti e parole utili esclusivamente per dar conferma delle mie diverse origini. Generalmente pensavo tra le mie che il divario di lingue fosse accettabile in quel posto. Certo, magari tutto quel continente era accomunato dal fatto che le milizie fossero quasi esclusivamente di stampo ninja, ma concepire una sola lingua in un così vasto territorio era da escludere. Di questo nemmeno Escanor me ne parlò mai, la vita lì si stava rivelando più complicata e problematica possibile. Amavo le sfide e più di ogni altra cosa amavo comprenderle… letteralmente! Allungai il taccuino con nonchalance, senza pensare ad un limite da mantenere tra me e l’altra, non ero lì per temere la gente del posto ma per conversarci in modo da capirne le usanze, le culture e accedere più facilmente alla vastità di territori. Avrei fatto di tutto pur di ritornare al mare, anche immergermi nelle biblioteche seppur non fossi propriamente una cima nella lettura.
    “Vuoi che scriva su questo taccuino? Va bene!” sentii il freddo provenire dalla sua pelle, il contatto con le dita sottili attivò i miei sensi con tutti i processi mentali e biologici derivanti. La percezione che la ragazza fosse semplicemente infreddolita fu ciò che riscontrai, ed infondo non vi erano indizi per ipotizzare il contrario. Non mi toccò la vicinanza all’ospedale, né il pensiero che fosse una paziente. Con addosso una divisa scolastica grigio chiaro con tanto di gonna della medesima tinta, una camicia in cotone di un azzurro pastello chiaro quanto l’acqua marina e una cravatta dai colori intrecciati mi apparve dinanzi come una normalissima studentessa quindicenne uscita a godersi una pausa o il post-lezioni.
    “Allora… oh si! Io… mi… chiamo… Kaori.” Sussurrava con aria a tratti infantile, giocherellando con la matita colorata e cercando il miglior modo per esprimersi cancellando e ricancellando il frutto sbiadito della sua calligrafia. Ugualmente sbiadita fu la domanda che seguì alla sua presentazione, frutto di un’inversione dei ruoli e di uno scambio di taccuini.

    "Io sono Lìf, mi sono trasferita da poco" Ricorsi alla mia abilità nel disegno per cercare di far capire all’altra ciò che volessi dire. Cercai molto distrattamente uno spazio sulla carta per potervi abbozzare uno schizzo raffigurante un mezzo a locomozione e una freccia, curvilinea e terminante in una punta acuminata in direzione di un altro simbolo, ovviamente quello del villaggio. Optai per un ulteriore disegno a completamento dell’opera, raffigurante quattro mura e un tetto proprio attorno allo stemma del paese, per dare all’altra un impatto maggiore e farle intendere in maniera perfetta quello scarabocchio. Mi colpì molto il modo in cui rise, appoggiando le dita sulle labbra per poi ritirare il capo e inclinarlo in direzione del cielo. Un commento a caldo? Beh, rideva proprio come la moglie del mozzo sulla Gea!




    Edited by Yama™ - 2/4/2017, 09:06
     
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    Mantenni l’udito affinato, di tanto in tanto lo scampanellio di quel gatto nero risuonava assieme al movimento dei cespugli, allo sfregolar della punta sulla carta e al vociar della gente intorno a noi. Sanciva con le sue zampette la vicinanza contrastante alla zona, forse il suo territorio di giochi o semplicemente la sua casa. Forse era lì che quel gatto viveva, e dedicava le sue sette vite a quella del suo padrone che magari era lì da qualche parte. Magari a riposo nel letto di una stanza asettica nei colori e nell’odore, con un campanello trillante di tanto in tanto per i bisogni più disparati. Non lo sapevo questo ma perché escluderlo? Che in quel momento stesse osservando dal suo angolino la stanza del suo amico umano con le vibrisse e il naso impercettibilmente in movimento? Che si stesse leccando il viso e la zampetta prima di spiccare un balzo e cercare di vederlo ancora?
    Scrisse ancora sillabando con iridi brillanti e capelli indorati della luce solare, mite e piacevole. Era primavera e su di lei sortiva un effetto strano, così come su di me. Non odiavo l’inverno ma preferivo il sole battente nell’oceano e il suono d’accompagnamento di aironi e gabbiani svolazzanti sull’increspatura lasciata dalla Gea al suo passaggio.

    Lif? Hai… un… nome davvero… strano! Bloccò il polso macchiato alzando la punta forse di un millimetro, riprendendo poco dopo senza imprimere altro ma fissandomi con un sorriso.

    Però mi piace! Cinguettò col suo tono morbido e canterino, socchiudendo le palpebre e allungando le braccia in avanti per restituirmi il taccuino e la matita, richiuso. Un album da disegno che s’era arricchito della vita di qualcun altro, e seppur non fosse fatto per questo non presi la cosa in maniera negativa ma tutto il contrario. Fui colta da quel gesto in maniera impreparata e sfregai il mento con indice e medio proprio per dimostrarlo, tuttavia non dissi nulla che potesse sembrarle strano e optai per conservarlo nello stesso luogo facendo attenzione a custodirlo in maniera adatta. Non erano informazioni utili per il mio scopo ma lo fece con così tanto garbo che non mi sarei lasciata prendere dalla decisione di scartare il suo ricordo. Si dimenò un po’ sui piedi, saltellando nei passi che decise di compiere per distanziarsi e raggiungere una roccia a pochi metri. Mostrò le gambe seminude e senza un graffio, pallide nella carne ma comunque abbastanza atletiche da non costituire un impiccio. Si calò appena sulla schiena senza piegare gli arti, accarezzando con i polpastrelli intrisi di grafite il manico di una custodia in legno rossa e bianca richiusa. La portò a se con dinamismo, roteando il polso e il braccio per passarla dal fronte al retro del busto dalle morbide curve acerbe. Si toccò la nuca strizzando l’occhiolino, dando vita ad una marcia turbolenta sul posto ed esponendo le gote ad un soffio di vento proveniente da sud.

    Ho dimenticato di dirti che suono, e ho dimenticato di dirmi che devo tornare ad esercitarmi o la sensei mi picchia!

    Ignorava il fatto che non potessi capirla, ma pareva così di fretta che non mi mossi per ridarle il taccuino ma finsi una risata, con un tic alla bocca per sottolineare ancora di più quanto fossi stranita da quella tipa. Fuggì nella direzione da cui ero venuta rischiando di inciampare in un masso che vide all’ultimo secondo ed evitò usando per due volte consecutive lo stesso piede puntato per terra. Non finì di stupirmi nemmeno in quel distratto tentativo di non sfasciarsi le ginocchia o la faccia in maniera rovinosa, ma tenni il palmo a mezz’aria fino a vederne solo un punto lontano. Agitai il capo umettandomi le labbra fino a circumnavigare per un altro po’ l’ospedale, girandovi intorno senza entrare. Ero stata trasportata dall’istinto e dalla voglia di schiacciare un pisolino in un luogo tranquillo e non conoscevo giustificazioni per farci un salto all’interno anche se magari avrei potuto contare su qualche medico per risistemare il mio disagio con gli insetti. Sfregai la guancia nel sorpassare il varco, aumentando il passo con tempo sempre maggiore fino ad uscire fuori dal perimetro, lì dove mi fermai afferrando la recinzione di ferro per scorgere un’ultima volta il posto in un silenzio inverosimile. Nascosi la mia pseudo mascolinità nella presa delicata del metallo, respirando tra le labbra chiuse e il naso arricciato per meditare e ritornare al mio lavoro. Sarei tornata lì spesso, ma mi dileguai tra i pensieri e la latta di liquore che staccai dalla cintola e stappai con meticolosa precisione, attenta a non versare nessuna goccia all’esterno. Troppo preziosa per me e per il mio lavoro.


     
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