Brandy oltre oceano.

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    La terra ferma era diversa da come me l’ero immaginata. Quel buco di culo del continente ninja non sembrava mostrare particolari attrazioni. Non mi sentivo a mio agio in quel posto così impregnato dalle piogge che persino i muri trasudavano odore d’umidità. Non fraintendetemi, io adoro l’umidità e tutto ciò che concerne l’acqua, ma Ame non è l’Oceano. L’Oceano è diverso, ha così tante capacità intrinseche ed è così tanto imprevedibile che è difficile capire cosa brami, cosa voglia. La realtà dei fatti è una sola: Ame non è la mia nave, ma devo farci l’abitudine. Sbarcai sulla terra ferma con la bocca traboccante di vomito, con il fetore sotto il naso e l’acido in gola. Fu davvero traumatico resistere a quelle onde così forti su una scialuppa di salvataggio, al fianco di un vecchio strampalato che a stento sapeva come curare il mio malessere. Ricordo ancora le innumerevoli volte in cui, per trattenere il senso di nausea, mi tappavo la bocca con il palmo della destra. Non volevo tutto ciò, non desiderare abbandonare il mio habitat, i miei compagni, la mia famiglia ma non mi fu data altra scelta. Nel mio corpo c’è qualcosa di vivo, un demone fatto di insetti che ronzano e che hanno fatto delle mie cellule la loro casa senza nemmeno chiedermi la chiave né versare l’affitto. Insomma, esseri abusivi a cui comunque sia devo la vita. Ora che ci penso è forse questo il motivo per il quale hanno il lasciapassare e non versano tasse. Mentre tutti questi pensieri mi “ronzavano” in testa (e perdonatemi il gioco di parole osceno, non me ne vogliate), stavo passeggiando per la strada più grande del villaggio in cerca di strutture particolari e per un po’ di sano studio. Ero appena uscita dall’esame per la promozione a Genin, una sorta di carica gerarchica estremamente bassa, gli sguatteri come li chiamava mia madre. Sguatteri perché il loro unico lavoro era spazzare il ponte e lustrare ogni singolo angolo delle navi, ricucire le vele, aiutare in cucina o in armeria. Gli inutili, i dilettanti, i lava-cessi che pur essendo richiestissimi sia al porto che in nave non erano considerati un granchè. Il mio amico John era uno sguattero, un pallido marmocchietto che si dava davvero tanto da fare per farsi notare da qualcuno. Il suo impegno venne premiato dal sottoposto di mia madre, un certo Tennant, che lo spedì dritto dritto a lavorare assieme al fabbro, peccato solo non fosse bravo con i martelli e tornò a pulire il ponte due giorni dopo. Insomma c’è chi può e chi non può. Giunta su un ponte mi affacciai, con le mani sul muretto, per osservare il corso dell’acqua, la mantella che sventolava al venticello e i capelli trattenuti solo dalla forza del cappuccio. Per un attimo sfiorai il borsello contenente il filo spinato, un mezzo rozzo e dozzinale che avevo valutato bene dopo almeno mezz’ora di tour in una piccola bottega. Pensare che i ninja fossero dotati di così tanti pugnali ma non di polvere da sparo, moschettoni, arpioni e fuoco greco mi fece riflettere su quanto fossero paradossali. Così avanzati nella loro cultura ma ancora chiusi al commercio, le idee tecnologiche si fermavano a veicoli troppo costosi e vistosi, spade di ogni dimensione, carte esplosive e qualche droga particolare. Legata alla cintura vi era una bottiglia vuota, una fiasca in cui ero solita versare del buon liquore. Alcune volte, colta dalla pazzia della serata, ci facevo il pieno di birra per non dimenticare lo spirito delle navi, ma certamente non era adatta per nulla a quella bevanda. Cercai di liberare il beccuccio facendo forza con il pollice, ma nel momento stesso in cui provai ad inclinare il contenitore ferroso non ne venne fuori nemmeno una goccia. Tremenda la frustrazione che provai in quel momento, la sensazione di dispiacere che attanagliava lo stomaco. Ero a corto di idee e anche di liquore, ma almeno per la seconda cosa non avrei fatto fatica a rimediare.

    Mi tocca trovare un buon bar, per tutte gli squali!

    Sorrisi, con il ponte che pian piano diventava piccolo alle mie spalle e nuove costruzioni in netta espansione. Sia chiaro, i palazzi non diventano grandi di loro spontanea volontà, è semplice questione di fisi… cioè prospettiva, che sia mare o terra ferma non cambia. Cambia però la stagione, cambiano i colori, cambiano i raccolti e cambiano le persone. In realtà è passato abbastanza tempo dal mio sbarco per affermare che il tempo e le stagioni facciano leggermente pena in questo posto, sarà per la posizione geografica o la sfiga. Ricaricare la fiaschetta in quel luogo così remoto non sarebbe stato facile, ma potevo contare sul progresso messo in atto dal Kage. Un nome strano per un comandante, non avevo mai sentito parlare né di lui né di tutti i predecessori, non conoscevo nemmeno la gerarchia e l’esistenza delle tecniche. Sorrisi tra mè nel ricordare quanto mi ci volle per apprendere quelle tecniche accademiche, che mi parvero essere le più complesse durante le fasi di studio. “Ricordati il mondo a cui appartieni” mi disse mia madre prima di abbandonare il nido, ma non avevo bisogno di lei, ne ero conscia già di mio. *Splash* fu il suono onomatopeico che emerse da quel piede posato erroneamente in una pozzanghera, gocce d’acqua spiattellate come sangue in tutte le direzioni come in uno dei peggiori horror amatoriali. Dietro al rumore di una locomotiva e dei suoi fischi striduli, appare finalmente dinanzi ai miei occhi quella che a tutti gli effetti pareva essere una locanda, o almeno ne suggeriva l’aspetto. Unica pecca? Pareva essere chiusa da tempo, seppur uno strano bagliore colse la mia attenzione: evidentemente qualcuno non era in vena di visite, o aveva dimenticato la luce accesa.


    Edited by Yama™ - 20/10/2016, 16:11
     
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    Qualche passo dopo mi ritrovai difronte ad una porta sigillata con tavole di legno dozzinali, edera e lastre di ferro messe un po’ a caso. Quella chiusura non aveva niente di invitante e al mio occhio non risaltò la sua figura come quella di un locale all’ultima moda o retrò, ma come un qualcosa di chiaramente illegale o abbandonato. Le ombre al suo interno mi suggerivano il contrario, potevo vederle chiaramente dall’esterno e la cosa iniziò a dimostrarsi abbastanza sospetta. Non che mi importasse molto alla fine, io ero cresciuta su una nave di pirati e fino a quel momento non avevo riscontrato particolari dettagli che potessero suggestionarmi. L’insegna in alto era scritta con un carattere a me sconosciuto, non ero avvezza della grammatica ninja per capirla e fu proprio per quel motivo che dovetti interagire con un passante per ottenere una risposta. Un bambino strampalato che passava lì per caso mi rispose con tono molto stridulo, uno di quelli che a lungo andare fan scoppiare la testa, leggendo ad alta voce il nome del locale così che potessi capirlo. “91 days”, nome abbastanza particolare in verità, moderno per i tempi attuali, ma stranamente inadatto per l’immagine che il locale dava. Restai un po’ in quella posizione a meditare sul da farsi, le braccia conserte e il viso corrucciato lasciavano intendere quanto fossi delusa da quell’aspettativa andata in frantumi. L’istinto mi disse però di avventurarmi, di girare l’angolo e investigare meglio sulla faccenda per capire se quel bar fosse davvero chiuso o se nascondesse altro. Ogni angolo del palazzo era un muro grigio senza porte, ma con molte finestre sbarrate dall’interno per negare ai passanti la curiosità di sbirciare. Non sapevo più cosa pensare di quella cosa, ero stata trapassata da un’idea che non voleva uscire e che avrei fatto bene a smentire per non cadere in un baratro.

    Se vi steste un po’ in silenzio potrei pensare meglio, non vi pare?

    Colpii la tempia con il palmo, giusto per mettere a tacere il ronzio di qualche insetto fastidioso per pensare meglio a cosa fare. Era seccante viverci assieme e mi faceva un sacco tenerezza il fatto che a molta gente schifasse questa mia particolarità, molti ragazzetti pervertiti avevano persino teorizzato idee strane di coiti, roba da masochisti da prendere a calci in culo. Insomma, tralasciando tutte le sfaccettature possibili e le facce schifate di alcuni pudici decisi che avrei fatto bene a fare di testa mia. Proprio per il fatto che dentro ci fossero comunque luci e movimenti strani allungai il passo fino a raggiungere la porta sbarrata. Chiusi il pugno in una stretta leggera, la mano sinistra sul fianco e l’insistenza delle nocche della destra sul legno.

    C’è nessuno lì dentro?

    Bravissima Lìf, così si fa, proprio arguta! Bussai più volte senza avere risposta, peccato però che i giochi di ombre fossero così intensi che a stento potevo ritornare sui miei passi. E continuai ad insistere con agglomerati di nubi minacciose alle mie spalle, volevo soltanto riempire la mia fiaschetta e andarmene, maledizione! Farfugliai qualcosa su un possibile sfondamento e lo sputtanamento totale di chi stava osando giocare con la mia pazienza, ma bisognava tenere a mente la pappardella fatta dagli insegnanti: “entrare senza permesso in proprietà private è reato”. A me. Figlia di pirati. Risi sul posto per quanto quei dettagli fossero ridicoli e non calzassero minimamente con la mia situazione, eppure dovetti smettere poco dopo. Mi serviva stare il più a lungo possibile in quelle terre e magari lontano dai casini, farmi buttare in prigione per violazione di domicilio era l’ultima scelta possibile. Sbuffai alla reazione di assoluto silenzio e alla mancanza di reazioni presenti, e mi arresi all’idea che non avrei ricavato nulla con tutta quell’insistenza e con il tempo perso, e fu proprio in quel momento che girai i tacchi per allontanarmi da quel locale e cercarne un altro dove poter far sprovviste.
    Quando fui lontana circa cinque metri però un rumore di assi di legno bloccò i miei passi e una voce rauca e cavernosa mi spinse a bloccare le gambe, quasi come se fossi stata colta da una immediata paralisi, un po’ come quella in cui dovettero incombere numerosi uomini di una nave nemica a seguito dello spargimento di una nube tossica, secoli e secoli orsono. Sentii tante volte raccontare quella storia da mia madre e da qualche ubriacone, a notte fonda sul ponte del veliero ed era divertente notare quanta enfasi i narratori ci mettessero nel rappresentarle con frasi e parole del tutto inventate. L’uomo dietro di me aveva un aspetto strano, pieno di ninnoli e dalla pelle scura, munito piccole lenti senza montatura e un serio problema di calvizia, così serio da prestarsi al lavoro di specchio in maniera magistrale e con occhi così incavati da apparire quasi invisibili. Chiaramente mi fissava tutto con la sbornia visibile dal rossore delle guance, ma inspiegabilmente prese a rimuovere quei sigilli come se nulla fosse, come se si fosse svegliato da poco e ne fosse da poco il proprietario.

    <uhmm! Cerchi qualcosa ragazzina?>

    Quella domanda mi parve strana e giustamente qualche dubbio mi assalì, come il fatto che probabilmente stava bluffando o non era conscio del fatto che avessi bussato fino a pochi secondi prima. Mi voltai mantenendo il braccio sul fianco e allungando il palmo verso l’uomo agitando la fiaschetta dinanzi alle sue orbite, nella speranza che potesse afferrare il concetto.

    <oh, eri venuta per il liquore. Vieni, entra pure>

    Difficilmente avrei pensato di ritrovarmi in una situazione così paradossale, ma francamente non avrei avuto di meglio da fare in quel momento e dato che ero lì non mi feci problemi a seguirlo, seppur palesemente c’era qualcosa che non mi convinceva. Che mi stessi ficcando nei casini?
     
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    Levate le ancore e ammainate le vele salpai alla volta del locale, sospinta dal vento e trattenendo la rotta per mezzo del mio corpo. Nessun timoniere, nessun mozzo, solo io e il mio corpo contro la natura selvaggia. Qualche passo in avanti e mi ritrovai a varcare la soglia di quel locale con passo sostenuto, ammaliata fin da subito da quanto fosse ospitale al suo interno, a quanta luce ci fosse in realtà. Dagli arredi molto fantasiosi, ai drappeggi sfarzosi e al bancone pulito impeccabilmente mi parve di essere caduta in una sorta di illusione –o genjutsu, come li chiamano da queste parti – seppur il tizio non mostrasse minimamente ostilità o qualche perversione strana. Tranne un piccolo particolare abbastanza rilevante, tutto ciò sembrava un comune locale molto retrò e ben tenuto, di quelli che si scoprono soltanto con attente ricerche. *Quack*
    Mi ero appena seduta su un divanetto quando un verso animalesco mi fece rizzare le orecchie e inclinare la testa, e nell’osservare il curioso animale scoppiai in una fragorosa risata: quella papera altezzosa accovacciata sul divano alla mia sinistra più prossima recava in testa una corona, aveva un pelo così bianco da invidiare il pallore dei morti e –cosa più importante- sapeva parlare.

    Non so se ringraziarti per averlo svegliato oppure maledirti perché, ora che è sveglio, si ubriacherà di più.


    Una via di mezzo c’è?

    Stesi le gambe e allungai le braccia verso l’alto, tirandomi su per sciogliere tutti i muscoli del mio povero corpo senza alcol, ribassando per garbo il cappuccio nell’istante dopo. Entrambi poterono notare il colore dei miei capelli molto chiaro e fuori luogo, una tonalità rara per quei luoghi, che aveva assorbito i raggi del sole rischiarandosi negli anni fino ad assumere molte variazioni di tonalità. L’uomo dalle guance rosse prese in mano un calice grosso quanto la sua mano, sicuramente più alto di quindici centimetri, con ghirigori e intarsi dorati su tutta superfice, un vero e proprio oggetto di classe e pacchiano.
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    Seduto sul divano difronte al mio mi porse una bottiglia di liquore, adagiandola sul tavolo con mano delicato evitando qualsiasi rumore inutile, la papera immobile sul suo posto a covar l’uovo magico.

    È tutta tua, è brandy. Dalla faccia so che non dovrei spiegarti cosa sia.

    In realtà non conoscevo quel nettare, non bevevo moltissima roba ad esclusione di birra e scotch e l’unica bottiglia di brandy che mi capitò dinanzi fu quella posseduta da mia madre nella sua stanza seppur non mi fu mai concesso il permesso di attingervi. Quindi ad esclusione del nome sarebbe stata effettivamente la prima volta in cui avrei sorseggiato quell’acquavite ottenuta dalla distillazione di vino. Stappai la bottiglia, impugnando il fondo come l’elsa di una spada e inclinandola nel tentativo di riempire il bicchiere per metà, oltre i cubetti di ghiaccio cristallini e perfettamente squadrati. Si mossero assieme al liquido versato sospinti dalla forza di quel nettare, cozzarono contro il vetro e il loro unico tintinnio fu gioia per le mie orecchie, poi adagiai il contenitore sul tavolino portando il bicchiere nei pressi delle labbra. Il suo profumo rappresentava un dettaglio inconfondibile e un tratto distintivo della sua pregiata qualità, che fu reso ancora più forte da un ondeggiar delicato sul palmo graffiato.

    Vedo che apprezzi, pochi ragazzetti della tua età sanno assaporare ogni singola parte di un buon bicchiere di brandy. Non ti chiamerai Baccus vero? perché quello è il mio nome GHYAAHAHHAA!

    Ho vissuto abbastanza a lungo a contatto con i liquori che in genere tendo prendere il mio tempo, è questione di accendere tutti i sensi e di bere a mente libera. E comunque no, non mi chiamo Baccus, il mio nome è Lìf.

    Piacere tutto mio? Avrei dovuto dire quelle parole ma quell’approccio al brandy bastò a sostituire mille convenevoli, mandai giù un sorso e poi tutto il resto con un brivido lungo la schiena come primo impatto. L’equilibrio incredibile di tutte le componenti, la forza dell’acquavite pura e l’impatto del ghiaccio sembravano unite ad opera d’arte da sapienti mani esperte, seppur tuttavia l’uomo mi ragguardò subito con un risata che pareva più un ruggito.

    Molti uomini si lamentano del fatto che vada ad aggiungerci del ghiaccio, e normalmente sarebbe meglio non farlo ma non mi pare si sia mai lamentato nessuno.

    Non ero abbastanza esperta per capire quel dettaglio e in effetti, al bicchiere successivo quando decisi di optare per una prova, fui stupita dai gusti più decisi. Ne fui così tanto sbalordita che difficilmente mollare la bottiglia sarebbe stata un’opzione valida, anche se quel posto e quel duo cominciavano a piacermi in modo tale da poter rendere il “91 days” un’abitudine. Mi disse che sarei potuta tornarvi tutte le volte che volevo e che quell’assaggio me l’avrebbe gentilmente offerto, un po’ per vanto e un po’ per “ricatto”. Riconobbi il potenziale del luogo in pochi istanti ed uscii poco dopo, nella speranza di ritrovare magari lo stesso trattamento in futuro. Che fosse illegale o no il locale dimostrava il fatto suo, ne ero rimasta soddisfatta a tal punto da confabulare qualcosa per il futuro. Nel mentre mi allontanai, uscendo dalla porta con la forte pressione dei due sulle mie spalle e l’impronta indelebile del loro brandy sulle mie labbra. Non volli indagare né rimanere altro tempo e così mi allontanai, oltrepassando nuovi palazzi e giungendo fino al punto più alto da cui poter osservare Ame, il luogo migliore per i miei disegni.

    Fine. E' sottotono ma è un prototipo, proverò diversi stili con diverse pq per capire quale sia il migliore per la pg :si2:
     
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    A me piace lo stile, sinceramente :sisi: La bimba ubriacona :sagh:

    Puoi prendere 35, mi è piaciuta
     
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