Iudicium Dei

[Personal Quest]

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  1. Anselmo
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    ~ X ~

    Primavera dell'anno 15 d.Z. ...


    UD8Dcmv
    Sensei. Ho ricevuto la tua chiam... cosa stai facendo?

    Aspetto.

    Sono qui, sono arrivato...

    Taci microbo, non è te che aspetto.

    La solita gentilezza, esattamente quella che mi faceva apprezzare la persona seduta su quel masso nel bel mezzo del nulla. L'ironia del pensiero era scontata. Mi avvicinai a lei, la affiancai e mi chinai al suo stesso livello per intercettarne lo sguardo e capire cosa stesse osservando. Ma aveva gli occhi chiusi. Respiro regolare, sole che le accarezzava il volto, corpo perfettamente immobile e nessun accenno a voler aggiungere qualcosa alla spiegazione. Capii che non c'era altro da fare se non... aspettare.

    Bene...

    Bene.

    Bene cosa?

    Non saprei. Bene cosa?

    Mh.

    Mi portai le mani ai fianchi e le scagliai addosso uno sguardo irato, muovendo le labbra in una serie di orribili volgarità, ma evitando di emettere davvero un suono. Quando lei mosse le labbra a sua volta, senza però aprire gli occhi, trasalii, temendo d'aver parlato ad alta voce senza essermene reso conto.

    Avanti, chiedimelo.

    Chiederti cosa...?

    Chi sto aspettando.

    Te l'ho già chiesto.

    No. Tu mi hai chiesto cosa stessi facendo.

    E va bene! Chi stai aspettando?

    Seguì un lungo silenzio, durante il quale un certo nervosismo ribollente prese a crescermi dentro fin quasi alla rabbia. Infine parlò, con una cadenza tanto calma quanto irritante, come se stesse cercando di trasmettere un concetto tremendamente semplice ad un bambino tremendamente bacato.

    Sto aspettando un carro trainato da buoi, che dovrebbe passare proprio ora lungo la strada alle tue spalle.

    Mi voltai e seguii con lo sguardo la strada in terra battuta che serpeggiava sulla piana arida fino all'orizzonte, lungo il quale spiccava il profilo delle costruzioni di Ishivar, lontano e deformato dalle onde di calore. E proprio laggiù, sulla strada, a qualche ruota di distanza da noi, un oggetto scuro in lento avvicinamento sollevava una nuvola di polvere argillosa piegata dalla brezza del mattino. Un carro proveniente dal Villaggio.

    E' vero! Sta arrivando!

    Esclamai a metà tra la meraviglia e lo sgomento.

    Bene, preparati.

    Scese dal suo scranno e mi sorpassò, fermandosi al centro della strada e piantandovisi a gambe divaricate, il bastone stretto orizzontalmente tra le mani. La raggiunsi e mi posi dietro di lei.

    Sensei, cosa stiamo...?

    Oggi riceverai la tua prima vera lezione di giustizia ishivariana!


    - 1 -

     
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  2. Anselmo
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    ~ X ~


    WUOOOH... Ma'athe! Ma'athe...

    L'ordine gridato dall'uomo sul carro fu immediatamente recepito dai vecchi buoi, che si fermarono in uno sferragliare di briglie e catene. Per un'istante fui catturato dalle due imponenti figure animali, e provai un profondo disagio. I loro occhi iniettati di sangue mi trasmisero tutta la desolazione di un'esistenza passata imbrigliato tra cinghie di cuoio ed anelli di ferro, trainando carichi pesanti dalla mattina alla sera. Due esseri viventi che della vita non avevano conosciuto nulla. Creature deviate dalla natura deforme, soggette al giogo di un padrone. Con il cuore pesante, volsi il mio sguardo già carico di pregiudizi verso l'uomo, chiedendomi cosa sarebbe accaduto.

    VIA DALLA MIA STRADA!

    Intimò, ma anziché un ordine, produsse un grido stridulo e spezzato. Sapeva che non eravamo viandanti qualsiasi che s'erano sbadatamente fermati nel posto sbagliato. Le armi che portavamo bene in vista, entro i confini di un Paese come la Speranza, erano un distintivo dall'efficacia equivalente a quella dei coprifronte Ninja.

    Ispezione in nome del Goha Foros Andras!

    Replicò la Sensei, con quel tono freddo ma al contempo minaccioso che solo lei sapeva adottare. E senza esitare sollevò il bastone in obliquo davanti a se, dirigendosi a lunghi passi verso il carro.

    Dohanos, controlla il retro del carro!

    No, fermi, io...

    Restai immobile per qualche secondo, incantato dalla figura di quell'individuo, ora svuotato di tutta l'autorità intrinseca di ogni essere mio pari, e ridotto ad un soggetto generico, pallido e sudaticcio, con una certa paura mista a malizia a combattere entro i confini dei suoi occhi incavati. Poi l'ordine impartitomi da Sensei Ren coprì il tragitto timpano-cervello e mi riscossi. Mi diressi verso il carro mentre lei, con un agile balzo, si piazzò in cima, difronte al suo conducente.

    Cosa vedi?

    Mi domandò. Raggiunsi il retro di quella baracca di legno su ruote ed allungai la mano verso il tendaggio. Era come se il mio maestro già sapesse tutto. Sapeva dell'arrivo del carro, sapeva dove controllare, sapeva come muoversi. Non era un semplice controllo di routine. Ero certo sapesse anche cosa vi avrei trovato. Eppure tale consapevolezza non mi aiutò ad affrontare la scena che mi si parò difronte. Quando sfilai il laccio dagli occhielli e scostai uno dei pesanti lembi, un alito umido ed ributtante mi investì. Vacillai per qualche istante, indietreggiando di tre passi. La colazione si cementificò alla bocca dello stomaco. Deglutii, sputai, mi girai dall'altra parte.

    C-Corpi... corpi di bambini... putrefatti...

    Lei annuì e poggiò con calma un'estremità del bastone sul capo dell'uomo.

    Ehi, Ehi! Sia chiaro, non li ho uccisi io. Erano già morti, non servivano a ness... OUGH!

    Ren mosse il bastone in una singola, rapida mezzaluna e lo colpì con l'altra estremità, proiettandolo giù dal carro sul lato della strada, dove rimase privo di sensi. Lo raggiunse e si mise a trafficare con una corda.

    Slega una di quelle bestie, che non ho intenzione di sporcarmi ulteriormente le mani.

    Ancora mezzo intontito dalla vista di quel mucchio di cadaveri lividi ammucchiati in maniera scomposta in quel piccolo spazio, barcollai verso uno dei buoi, che non appena mi vide muggì e strattonò le briglie. Lo calmai con qualche carezza e sussurro rassicurante, e cominciai a liberarlo dai legacci di cuoio.

    Era sincero, vero? Non li ha uccisi lui...

    No.

    E chi è stato?

    Drepoxi, il Fiore della Condoglianza...

    Un'epidemia che si era diffusa in maniera isolata in alcuni villaggi delle Nuove Terre, colpendo di un male mortale soltanto i bambini. Era stata debellata da qualche mese, e quelle dovevano essere le ultime vittime.

    Perchè questi corpi sono qui?

    Si è intrufolato nelle Tende della Cura e lì ha sottratti ai Giardini del Riposo.

    Cosa voleva farne?

    E' meglio che tu non lo sappia.

    Replicò in tono greve. Anche avessi insistito, non me l'avrebbe detto. Ma tentai di far breccia nella sua testa giocando d'astuzia.

    Di cosa è accusato? Non sarà mica solo furto?

    Domanda a cui doveva rispondere, perchè in ogni caso l'avrei saputo una volta fatto rapporto ai superiori. Mi fissò per un lungo istante con occhi torvi, e sostenni il suo sguardo con tutta la spavalderia di cui solo un sedicenne può essere capace.

    Crimini contro l'umanità.

    Decisi che forse era davvero saggio non voler sapere altro. Liberai il bue e lo guidai tenendolo per un corno fin dal maestro. Ren vi caricò sopra l'uomo senza tanti complimenti, gettandolo di traverso sulla schiena dell'animale, e gli diede una pacca sulla natica incitandolo a dirigersi verso Ishivar.

    Lasciamo tutto qui? Il bue, i corpi dei bambini...?

    Oh Dei, vi prego, perdonatelo.

    Rispose la Sensei esasperando la preghiera.

    Quei corpi sono già stati segnati, piccola cimice col cervello d'una blatta. Sarebbe contro la dottrina anche solo sfiorarli, figuriamoci trasportarli come fossero carne da macello, come sto rifiuto umano qui.

    Disse, accennando all'uomo, che ora sbavava ancora privo di conoscenza sulla schiena del povero bue.

    Vedi di svegliarti, se non vuoi essere giustiziato pure tu. Comunque le Madri Silenti sono già state avvertite e verranno a prelevare i defunti. Avanti, andiamo, seguimi...


    - 2 -

     
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  3. Anselmo
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    ~ X ~


    Un'ora dopo essere ritornati ad Ishivar, il bue che avevamo utilizzato per trasportare il criminale era stato liberato nelle Terre Verdi, dove probabilmente avrebbe trascorso i suoi ultimi anni di vita pascolando e riposando; il criminale invece giaceva in ginocchio con le mani legate dietro alla schiena al cospetto degli Anziani d'Ishivar, nascosti alla sua vista da uno schermo di tela semitrasparente, in una sala immersa nella luce soffusa che penetrava dalle finestre pigmentate; quanto a noi, stavamo in piedi ai due lati dell'individuo, attendendo che il Circolo si esprimesse in merito alla punizione che gli sarebbe stata inflitta. Non conoscevo esattamente i suoi crimini, ma ero certo sarebbe stato condannato alla fossa. E l'idea mi pervadeva d'un misto di orrore ed eccitazione. Più mi addentravo nelle meccaniche di quel mondo che fuggiva verso il futuro, più imparavo a comprendere e decriptare le forze che che avevano agito contro il mio popolo. E più quelle forze venivano a me, più cresceva il potere repulsivo che esercitavano verso il mio essere.
    Le confabulazioni ovattate dietro lo schermo cessarono. Mi irrigidii. Una goccia di sudore colò dal vecchio volto rugoso dell'uomo e si aggiunse alle altre che giacevano sul pavimento polveroso. A parlare sarebbe stato il Goha Foros, colui che ha il compito di decidere la pena. Fu la prima volta in cui udii la voce del leggendario Andras.

    Il Zereg Vhagar condanna questo uomo a scontare il Rou'hat. Che gli Dei possano giudicare il suo spirito.

    "La fossa", pensai. Quell'uomo sarebbe stato calato in un buco dalle pareti rocciose tanto profondo che nemmeno il sole ne raggiungeva il fondo. Le gambe incatenate, il chakra soppresso, ed un cucchiaio in tasca come per aggiungere, oltre al danno, anche la beffa. Mi era stato permesso di avvicinarmi al bordo di quel baratro, quando ancora apprendevo le basi del Ninjutsu quasi un anno prima. Avevo guardato verso il basso e mi era parso di sentire un sussurro. Non il sussurro di un umano, ma qualcosa di più primordiale. Come se la terra stessa avesse sospirato, come se anelasse corpi umani, attendendo ansiosa che compissi un passo falso e cadessi giù nelle sue viscere. Come se non si trattasse di una semplice fossa, ma della bocca spalancata di una creatura senz'anima, assetata degli spiriti corrotti. Dicono che nemmeno a mezzodì, quando il sole doppia il suo culmine nella volta celeste, sia possibile scorgere le ossa dei cadaveri che ivi giacciono, quasi che la fame di quel pozzo sia tale da divorare la luce stessa. Dicono anche che in pochi arrivano a patire la sete: la maggior parte muoiono per le ferite riportate precipitando nei loro tentativi di scalare le pareti, mentre altri preferiscono cercare qualche resto umano affilato da utilizzare per togliersi la vita con le proprie mani. I pochi che decidono di sopravvivere fino all'ultimo impazziscono, e li si può sentir gridare per giorni e giorni, se solo si ha il coraggio di avvicinarsi a quel luogo maledetto. Qualcuno è mai riuscito ad uscirne? Certo, nelle leggende.
    Abbassai lo sguardo verso l'imputato e lo vidi coprirsi il volto con mani tremanti. Una stretta al cuore mi mozzò il respiro; stavo provando compassione verso quella creatura. Provare ad immaginarsi quali crimini tremendi avesse compiuto non mi aiutò per nulla. Avrebbe sofferto tremendamente, come nessuno dovrebbe mai soffrire. Ma erano state le sue azioni a condurlo verso quella sorte crudele. Veniva punito per quelle, come altri sarebbero stati puniti per aver inondato di morte la mia casa... Avevo appena formulato un pensiero che non mi apparteneva.
    "La legge di un uomo cambia a seconda della suo pensiero. Solo le leggi dello spirito rimangono sempre le stesse." Il volto benevolo di mio padre, che anni prima aveva pronunciato quelle stesse parole costringendomi a ripeterle tre volte, mascherò la realtà circostante. Vidi le sue labbra muoversi nel mimare il mio nome. Mongwau. E rinsavii con un sussulto di commozione, pensando a lui, ai suoi insegnamenti, ai valori dei Sawokii. Provai rabbia verso me stesso per aver ceduto a tali pensieri. Non mi appartenevano. Quella lezione di giustizia ishivariana, come l'aveva chiamata Sensei Ren, doveva rivelarmi la depravazione di quel mondo che era andato avanti, non indurmi ad accettarla. Mi pentii di aver tentato di giustificare la barbara usanza a cui stavo assistendo, perchè se l'avessi adottata come avrei potuto condannare chi, in nome degli stessi principi, aveva distrutto il mio mondo? Guardai nuovamente quell'uomo, ed in lui non vidi più ne un criminale che pagava per le sue malefatte, ne una vittima cui spettava una sofferenza inconcepibile. In lui vidi un semplice prodotto di ciò che mi circondava, niente più. Punirlo, giustiziarlo o graziarlo... non faceva alcuna differenza. Il vero colpevole era tutto attorno a me, costruito anno dopo anno, vita dopo vita, su fondamenta precarie.
    Quel che accadde dopo me ne diede la conferma. Nel momento stesso in cui il condannato si alzava da terra esortato a colpetti di bastone dalla Sensei, crollò nuovamente al suolo saggiando direttamente la polvere.

    O-Ordàlia... Ordàlia Kis! ORDÀLIA KIS!

    Invochi il Duello degli Dei?


    Fece eco da dietro lo schermo una voce dalla cadenza antica tipica degli anziani abbastanza saggi da saper di essere sempre ascoltati.

    S-si... SI!

    Il condannato, scosso da tremiti violenti, si sollevò dal pavimento, la polvere incollata al lato destro del volto sudaticcio.

    E sia. Ci ritiriamo per nominare il nostro campione.

    Mi offro io.

    Ren fece un passo avanti e pose un ginocchio a terra. Un coro di mormorii invase la stanza fondendosi nella luce soffusa.

    Bene, procediamo.


    - 3 -



    Continua.
     
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    Sotto un Albero di Arance.

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    Scrivi velocemente il prossimo, sono troppo curioso
    Prendi pure il massimo.
     
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  5. Anselmo
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    MAMMA, SONO A CASA!

    Gridai attraverso la finestra socchiusa del portico. Tra gli addestramenti con la Sensei, le commissioni nei villaggi minori, gli appostamenti notturni e tutte le altre faccende che dovevo svolgere in quanto guerriero, non mettevo piede lì da più di due settimane. Afferrai una delle sedie accanto all'entrata e la trascinai sulle assi di legno del portico, sedendomici sopra rivolto verso il viale polveroso. Lo stesso fece il mio maestro, posizionandosi accanto a me. Poggiò la sua lancia sul tavolino e riversò il capo all'indietro, sciogliendosi in uno stiracchiamento lamentoso.

    YAAAHWNNNAH! Passami la tua borraccia...

    Bevve avidamente fino all'ultimo goccio, noncurante dei rigagnoli d'acqua che le scendevano lungo mento, collo e petto. Poggiò le braccia sui braccioli della sua scomoda sedia fatta di vecchie tavole di legno inchiodate e chiuse gli occhi, dando tutta l'impressione di volersi abbandonare al sonno. Come sempre non potei fare a meno di ammirare la sua posizione totalmente stravaccata, in netto contrasto con le sue forme solide ma aggraziate. Poi, lentamente, la mia mente si dissociò, e spostai gli occhi sul traffico del tardo pomeriggio, guardandovi attraverso con un'espressione persa in volto. Le persone di passaggio, i carretti sferraglianti, i gatti in cerca di rimasugli da divorare; non vedevo nulla di ciò. In quel momento i miei pensieri carezzavano tutt'altro luogo. Un luogo perso nel tempo e lontano nello spazio, ma che viveva ancora fulgido nel mio cuore. Pensieri brevi ed intensi, che sentivo emergere tiepidi dal pozzo di fumante rimpianto che mi allagava il cuore. Se solo avessi potuto dormire un'ultima volta nella mia calda capanna, udendo lontano il gorgogliare del Bianco Sentiero che scorreva nella Valle Sawokii; se solo avessi potuto aiutare un'ultima volta Mà a cucinare lo stufato di coniglio, cercando di sfuggire alle sue domande riguardo le ragazze che passando lì difronte mi salutavano con la mano; se solo avessi potuto cacciare un'ultima volta con Pà, o bisticciare con la mia sorellina Naira, o correre nelle foreste con Magua, o infastidire i cani di Orso Lento assieme agli atri miei amici, per poi scappare a gambe levate ridacchiando in modo infantile; se solo avessi potuto, per l'ultima maledetta volta...

    Gendō, che ti prende?

    La sua voce assonnata fece un'enorme fatica a far breccia nella densità dei miei pensieri. Sospirai profondamente, tentando inutilmente di scacciare la pesantezza che era tornata a gravarmi nel petto.

    Niente, è solo che...

    Non sarei riuscito a proseguire ulteriormente, ma fortunatamente in quel momento Kiyo, mia madre adottiva, uscì sul portico sfoggiando un sorriso cordiale, e con voce pesata:

    Bentornato figlio mio. Cordiali saluti, Guerriera Ren.

    Salve, mamma.

    Dissi in tono distaccato lanciandole una rapida occhiata distratta. Ren, dal canto suo, proruppe con tono palesemente ironico:

    Sii fiera di tuo figlio, Kiyo-san. Oggi ha assistito al suo primo Duello degli Dei. Presto potrebbe avere l'onore di prenderne parte come Campione degli Dei nel massacro di un qualsiasi povero rifiuto umano, come quello che ho spedito dritto all'altro mondo poco fa.

    Intervenne senza smuoversi dalla sua posizione svaccata e senza aprire gli occhi. Kiyo sorrise con la tipica espressione di chi non è sicuro di aver capito ma non vuole darlo a vedere, e bofonchiò qualcosa rientrando in casa. Almeno la sua apparizione mi aveva risparmiato dal discorso spiacevole che stavamo per intraprendere. O per lo meno così credevo. Ma fui smentito quando, non appena la porta si fu chiusa, Ren tornò alla carica, seppur con voce stanca e svogliata.

    "è solo che..." cosa? E' la prima volta che vedi qualcuno morire? Pensavo che voi ragazzini...

    Non ascoltai oltre, perchè alla parola "morire" i miei pensieri tornarono inevitabilmente al Duello degli Dei, e forse fu un bene. Per tutto il tempo durante il quale quel criminale era stato portato nell'arena, poi slegato, armato e messo difronte a Ren, mi ero chiesto come si potesse essere così pazzi da poter pensare di combattere contro una come lei. Avevo trovato risposta al quesito pochi istanti dopo quando, dato il via al duello, la Sensei si era avvicinata al criminale e gli aveva piazzato un singolo montante al centro del petto, senza che questi reagisse. Era stato sollevato di parecchi metri da terra, per poi ricadere al suolo inerme, privato della vita da quell'unico, potentissimo, colpo. Una morte rapida ed indolore, ben più appetibile dell'incubo della fossa. Non voleva combattere, voleva morire. Si era arreso al proprio destino senza nemmeno tentare di cambiarlo. L'avevo odiato per questo, e lo odiavo tutt'ora, nonostante fosse già solo un ricordo che probabilmente avrei rimosso in breve. Si, era la prima volta che vedevo qualcuno morire sotto i miei occhi, ma...

    No, non è quello.

    - 4 -

     
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  6. Anselmo
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    ~ X ~



    Ti è mai capitato di... non sentirti te stessa? Come... come se fossi, in qualche modo... sbagliata?

    Come se tutti i ricordi del passato, dal primo all'ultimo, ti riempissero di una tale sofferenza da volerli rinnegare. Come se l'unico modo di non affogarvi dentro fosse quello di non essere più te stesso. Essere un'altra persona, una senza alcun ricordo, senza una storia o un'origine. Una persona nuova che non ha motivo di soffrire. Privata dei vincoli del passato, libera di crearsi un futuro. Non un'anima in fuga dall'abisso, ma a spasso nella beata monotonia. Sottrarmi a quella terribile responsabilità che la mia gente mi aveva posto sulle spalle nel momento stesso in cui loro venivano abbattuti uno dopo l'altro, senza distinzione, ed io venivo trascinato verso la salvezza.
    Percepii nei limiti del mio campo visivo gli occhi di Ren aprirsi, il capo sollevarsi ed il suo sguardo porsi su di me. Io continuai imperterrito a guardare in avanti, attraverso la strada sempre meno affollata.

    Mi stai chiedendo se ho mai desiderato essere qualcun'altro?

    Si.

    Mormorai con un filo di voce.

    E perchè mai avrei dovuto?

    Le parole mi si accumularono alla base della gola ed ivi rimasero, in un groppo indistricabile. Dovetti sforzarmi tanto per parlare che senza accorgermene serrai con forza le mani sulle ginocchia. La voce uscì, tremante, incerta:

    Non lo so... magari p-perché... perché pensare a chi sei t-ti fa male...

    Ren sospirò, mi guardò a lungo, sollevò una mano forse nel tentativo di prendere la mia, ma poi la lasciò ricadere sul bracciolo.

    Gendō, io... senti, ne abbiamo già parlato. Tu per loro non puoi fare niente. Quello che è successo alla tua gente devi... devi lasciartelo alle spalle. Sei giovane, hai moltissimi anni di vita davanti e se vuoi viverli, devi dimenticarne i primi quattordici. E' normale che tu ti senta sbagliato, che tu voglia essere qualcun altro: è il tuo buonsenso che sta cercando in tutti i modi di farti scordare chi eri, spingendoti verso un nuovo inizio. Devi dimenticare, Gendō. Ci vorrà del tempo, ma devi farcela.

    Serrai la mascella, il cuore prese a pulsarmi violentemente nella testa. Facevo fatica a respirare, quasi gemevo.

    N-Non posso...

    Perché?! Eh? La stupida vendetta, è questo?!

    Perchè...

    Scoppiai in lacrime, un tumulto di graffiante dolore che emergeva come da un vulcano in eruzione. Mi girai verso di lei, noncurante della fragilità della mia condizione, delle emozioni incontrollate che prendevano il sopravvento, del rapporto tra allievo e Sensei o di qualsiasi altra cosa. Mi girai verso di lei e dissi quello che ogni singola cellula del mio corpo voleva ammettere:

    ...PERCHE' MI MANCANO! Mà, Pà, la mia s-sorellina. MI MANCANO! Voglio stare con loro, li rivoglio, erano miei, non... non potevano portarmeli via.

    Mi alzai e gli diedi le spalle, poggiandomi ad una delle colonne in legno, il volto nascosto nell'incavo del gomito.

    Erano miei...

    Ed io appartenevo a loro. Una cosa unica, una famiglia. Legami di cui non si può definire la specie. Come se portandoli lontano da me, avessero letteralmente privato la mia persona di una parte insostituibile, causandomi una ferita che sanguina copiosa trascinandomi lentamente verso la fine. Qualcosa di morto mi imprigionava il cuore in gelide catene tintinnanti. La voce di mia madre, il sorriso di mio padre, lo sguardo di mia sorella, le anime irrequiete dei Sawokii. Seguivano ogni mio passo, riempivano ogni mio pensiero, mi toglievano il respiro.
    Qualcosa mi scivolò lungo il corpo. Abbassai lo sguardo e vidi due mani incrociarsi sul mio petto. Le mani di Sensei Ren. Mi abbracciò, il suo corpo che premeva contro la mia schiena, la sua guancia poggiata sulla mia spalla. Percepii molto vicino l'odore di lei. La sua presenza fu tanto invasiva che ogni mio pensiero sparì come il lampo accecante nella notte che lascia solo un'impronta pulsante nella retina dell'occhio. Lasciai cadere le braccia lungo il corpo, gli occhi sbarrati, fermandomi per qualche istante in quel momento di vuoto che anelavo da lungo tempo. Un momento privo di preoccupazioni, lontano dal me stesso. Un breve intervallo di tempo che terminò com'era iniziato, e tutto fu come prima. Nulla poteva cancellare ciò che era accaduto, ed io non potevo mentire a me stesso. Il mio compito era chiaro. Non c'era spazio per il pianto. Ogni lacrima che versavo era un insulto al mio popolo. Sollevai il gelido metallo del mio braccio meccanico ed afferrai il polso della mia Sensei, scostandolo con uno strattone. Mi liberai dal suo abbraccio e senza rivolgerle uno sguardo mi diressi lungo il viale ora deserto, asciugandomi le lacrime con l'avambraccio. Lontano da lì, lontano dalle emozioni.
    Una visione molto grande è necessaria e l’uomo che la sperimenta, deve seguirla come l’aquila cerca il blu più profondo del cielo.

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    ¦ P E R .. C O M P R E N D E R E .. L ' A V V E N I R E . . . ¦ Fino all'età di quattordici anni, Gendō era conosciuto con il nome Mongwau, letteralmente "Gufo" nella lingua della sua tribù d'origine, i Sawokii. Questi all'epoca vivevano nella cosiddetta Valle del Bianco Sentiero, una striscia di terra rigogliosa che per dimensioni e posizione risultava insignificante agli occhi del mondo, tanto da non figurare nemmeno sulle mappe. Si trovava sul confine tra il Continente Occidentale e il Paese della Speranza, geograficamente parte di quest'ultimo ma politicamente considerata terra di nessuno. Mongwau, sua madre, suo padre, la sua sorellina Naira ed il resto dei Sawokii che la abitavano (un popolo di appena un migliaio di abitanti), la consideravano la propria casa, una dimora che avevano abitato fin da tempi immemori, quando il Paese della Speranza era ancora calpestato da molte altre tribù indigene. Tribù poi sparite, una dopo l'altra, con l'avanzare del progresso e l'instaurarsi delle nazioni del Mondo Ninja. Ma non i Sawokii, che per una serie di fortuite coincidenze riuscirono sempre a restare isolati da ciò che accadeva oltre i confini della loro stupenda dimora. Seppur insignificante, però, anche quella terra di nessuno cominciò infine a destare interesse. Sempre più spesso infatti, vari individui cercavano di prendere contatto con la popolazione autoctona, individui che i Sawokii classificavano generalmente con il termine "Shinobi" o "Portatori del Ninjutsu", persone che tentavano prima con la diplomazia e poi con la violenza di scacciare la tribù dal luogo. Giorno dopo giorno si diffuse un crescente sentimento di paura nei confronti di quel mondo esterno che, come solevano affermare gli anziani: "era andato avanti". Solo da Ishivar giungeva qualche aiuto, come le misteriose protesi Auto-Chakra per supplire al male che affliggeva anche i Sawokii come il resto degli ishivariani. Ma oltre a ciò niente più, perché quella era terra di nessuno, una terra per cui non vale la pena combattere. Fu così che un giorno, o meglio, una notte, giunse la sventura, spinta da un vento di fuoco e metallo: i portatori del Ninjutsu attaccarono e sterminarono l'intera tribù Sawokii. L'unico a salvarsi fu il giovane quattordicenne Mongwau che, in circostanze misteriose note solo a lui, evitò il massacro. Fu trovato in riva ad un fiume da un gruppo di mercenari che lo portarono ad Ishi, dove venne accolto ed adottato da una famiglia del posto. Mongwau, ora conosciuto come Gendō Ikari, non mise mai più piede nella Valle del Bianco Sentiero, un luogo che un tempo ospitava tutto ciò che per il ragazzo avesse valore, luogo ora vuoto e pertanto irriconoscibile. Ed ora, a due anni da quella notte, Gendō decide di intraprendere la via del Ninja, spinto da un semplice sentimento: scoprire chi, scoprire perchè, dare pace agli spiriti Sawokii.



    ~ X ~


    Ishivar era quieta la sera. Le strade erano deserte, attraversate solo dai fasci di luce proiettati dalle finestre delle abitazioni. Qualche porta che sbatteva ogni tanto, il suono di una parola pronunciata ad alta voce, il cinguettio degli uccelli che si preparavano all'arrivo della notte. Passeggiavo in solitudine per le vie in terra battuta senza una meta, seguito a distanza dal mio Sensei. Nonostante i parecchi passi che ci separavano, potevo percepire distintamente la preoccupazione mista a rabbia che le ribolliva dentro. Temeva potessi fare qualcosa di sconsiderato, credeva che a muovermi fossero quelle emozioni che poco prima avevo eruttato senza freno sul portico di casa mia. In realtà non provavo niente, ad invadermi era un vuoto totale. Niente più rabbia ne tristezza. Ero talmente stanco da non riuscire nemmeno a pensare. Una sola idea ridondava insistentemente tra le pareti della mia scatola cranica. Arrestai i miei passi e mi girai verso Ren, osservandola avvicinarsi da lontano come un miraggio che danza tra le onde di calore del deserto, il suo fido bastone che le spuntava da sopra la spalla destra. Mi si parò difronte, a dividerci solo la distanza di una carezza. Sotto l'impassibilità del suo volto lessi la preoccupazione che già prima avevo percepito. Non era da lei. Dal primo momento in cui ero stato assegnato ai suoi insegnamenti, da me aveva preteso sempre ferrea e costante forza d'animo. Nonostante sapesse da cosa ero reduce una volta giunto ad Ishivar, mai aveva tentato di consolarmi, mai mi aveva lasciato del tempo per riflettere, mai mi aveva permesso di perdere il controllo o sfogarmi. Forse era così che aveva provato a guarirmi: non darmi il tempo di pensare al passato, tenermi mente e corpo occupate nel mestiere di Shinobi. Questa sera non era così, Sensei Ren teneva la bocca serrata. Ero così abituato a vedere le sue labbra pronunciare parole quali "Non è il momento per i drammi cimice, rimettiti al lavoro!" ogni qualvolta lasciavo che lo sconforto trasparisse dal mio volto, che vederla mantenere il silenzio mi dava i brividi. Sapevo perchè. Aveva appena realizzato che mantenermi occupato non era sufficiente ad imbrigliare l'inevitabile. Si rendeva conto di aver fallito. Immaginai per un'istante il momento in cui uno dei suoi superiori la informava dell'arrivo di un ragazzino scampato alla distruzione del suo popolo, ragazzino che aveva bisogno di una presenza forte che lo distogliesse dalla disperazione, dalla rabbia, dal desiderio di vendetta e da qualsiasi sentimento di autodistruzione lo attanagliasse. Ora Ren capiva di non essere riuscita ad assolvere il suo compito. Era stata solo capace di rallentarmi. Mi scrutava silenziosa, ed altrettanti facevo io. La sua mente doveva essere colma fino all'orlo di pensieri, ragionamenti, idee per convincermi a non fare ciò che sentivo di dover fare. Dal canto mio, solo un pensiero gridava nella mia testa. E con voce distaccata, senza quasi accorgermene, lo espressi:

    Devo tornare alla Valle del Bianco Sentiero... devo tornare dal mio popolo, dalla mia famiglia... devo andare a casa.

    Ren abbassò lo sguardo.

    Non farlo cimice...

    La voce le si ruppe in gola. Deglutì, alzò lo sguardo su di me, non riuscì a reggere, lo volse verso l'ultimo alone di luce che spariva dietro l'orizzonte per lasciar posto alla nuova luna. Sospirò, come a volersi nutrire di coraggio per dire ciò che doveva dire.

    Se torni là non troverai altro che desolazione. Non rovinare il ricordo della tua casa, mantieni l'immagine che mi hai descritto, un'immagine felice. Se ci ritorni, dopo tutti questi anni dalla sua distruzione, ne vedrai solo le ceneri, e non riuscirai a pensare ad altro.

    Quindi dovrei lasciarmi tutto alle spalle, accettare tutto come il semplice ricordo di una cosa passata e dimenticare?


    "Si!" è la risposta che mi aspettavo, la risposta che mi aveva sempre dato, quella risposta razionale che chiunque mi avrebbe dato.

    No.

    C-Cosa?


    La fissai intensamente, e questa volta ricambiò.

    No, non ti dirò più di dimenticare, ora capisco che è impossibile. No... voglio accompagnarti. Qualsiasi cosa tu voglia fare, avrai il mio aiuto.

    Le sue parole furono come una martellata di pura incandescenza dritta al mio cuore. Bastarono quelle a sollevarmi di parte del fardello che mi gravava crudelmente sul petto. Una parte piccola, ma fu comunque un sollievo inimmaginabile. Mai avevo sperato... anzi, non avevo mai nemmeno considerato l'idea che lungo la terribile Via che mi ero prefissato di percorrere, qualcuno potesse stare al mio fianco. Mi ero sempre immaginato da solo, circondato da pericoli e sofferenze. Gli occhi mi si dilatarono, mi sentii impallidire, colto da un'emozione indescrivibile. Forse felicità, forse gratitudine, forse paura...

    Ma non ora...


    Ren si fece autoritaria, il suo volto dai tratti gioviali divenne una maschera di ferro.

    E' troppo presto, sei ancora troppo debole. Non mi riferisco al tuo corpo, ma al tuo spirito. Sei come un ampolla di sottile cristallo che rotola lungo un pendio roccioso. Sei sull'orlo della distruzione, Gendō. In queste condizioni non potresti affrontare ciò che ti aspetta.


    Feci per aprire bocca, ma fui anticipato:

    E non accetto proteste! Se vuoi il mio aiuto, farai quello che dico io. Solo quando io lo riterrò opportuno, potrai dedicarti alla tua crociata. E mi ci dedicherò anch'io. Lo faremo insieme...

    Sensei...

    Mormorai senza riuscire a formulare un pensiero coerente. La mano sinistra, quella fatta di ossa, tendini, legamenti e sangue, tremava e sudava. Quindi sollevai la sinistra, quella fredda e composta di metallo senza vita, e la avvicinai a Ren. Poggiai le dita sul suo ventre ammantato di stoffa grezza, senza riuscire ad alzare lo sguardo sul suo volto. La mano mi ricadde, ero privo di forze, privo della capacità di dimostrare la mia gratitudine nei suoi confronti. Ma prima che ricadesse, le me la prese tra le sue. La strinse, l'abbracciò, mi carezzò dolcemente il volto. Per me fu la fine, perchè compresi che la solitudine era la morte. Io, meglio di chiunque altro, capivo quanto valesse l'amore di qualcuno. Perchè mi era stato sottratto con tale violenza da convincermi che la cosa migliore fosse stare soli. Ed ora capivo quanto mi fossi sbagliato. Ma nessuno mi avrebbe regalato il suo amore. Dovevo guadagnarmi ogni singolo legame.


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    Scrivi davvero bene :sagh: Prendi pure il massimo :D
     
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