Siringhe e antidoti

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    Genpaku Hoozuki, ricorderò a lungo questo nome, ti sei meritato il mio rispetto, non sei un avversario qualsiasi.
    Il veleno non ti ucciderà, stanno arrivando i medici, non è ancora arrivato il tuo giorno.

    Quelle parole rimbombavano ancora qui e li, il giovane arciere mi avrebbe potuto finire da un momento all'altro ma pur la sua indole assassina, mi risparmiò e proprio per questo sarò in debito con lui per il resto della mia vita. Mi toccavo lo stomaco sputando sangue a getti intermittenti mentre la sabbia cocente si spargeva sulla mia mano risplendendo proprio come un fiore appena sbocciato e, nel mentre, lacrimavo fievolmente. Quelle lacrime si alternavano a forti sospiri che scandivano quel terribile silenzio e, proprio come un fiore appassito, si poggiavano dolcemente al suolo bagnando quella distesa immensa fatta di piccoli granuli. I soccorsi parevano non arrivare ed ecco che decisi di prendere la mia strada, inizia a camminare in cerca dell'infermeria più vicino anche se, in un deserto, era un'utopia vera e propria trovarne una. Zoppicavo vistosamente mantenendomi il braccio sinistro con l'altra mano e continuavo a lacrimare. Ma perché? La convinzione di aver fallito nuovamente si ripercuoteva sulla mia psiche inducendomi a piangere, ero convinto di essere un fallito eppure le parole di quel giovane erano tutt'altro che negative, anzi, sembrava appagato di aver trovato una persona in grado di metterlo in difficoltà. Chissà, forse era davvero troppo forte per me.
    Ecco che, grazie a chissà chi, arrivò in mio soccorso un'ambulanza che si accertò delle mie condizioni per poi mettermi in barella dichiarandomi grave. Quell'automobile sfrecciava evitando i vari ostacoli che si paravano sul suo percorso per poi frenare bruscamente dinnanzi all'ospedale che si trovava poco dopo l'ingresso di Suna, venni portato immediatamente al suo interno e girandomi a destra e a sinistra notai cose al contempo disgustose e terrificanti. Una barella percorreva il corridoio semibuio, preceduta dal gemito delle ruote male oliate. Nell'oltrepassare un angolo, urtò contro la parete, lasciandovi una striscia scura. Ancora un tratto in penombra, poi una porta venne aperta e la barella entrò nella luce accecante della stanza bianca. Un uomo in camice, di spalle, controllava un'apparecchiatura: accendeva, spegneva. Tornò ad accendere e batteva l'indice sul quadrante, facendo sussultare la lancetta. L'uomo spense un'altra volta. Appoggiò le mani sull'apparecchiatura, la schiena curva, il capo chino.
    Altre persone -uomini, donne?- si muovevano con gesti precisi. Qualcuno faceva bollire una siringa e i suoi aghi, qualcun altro puliva l'alcol con due elettrodi. Si sentivano solo il tintinnio dei ferri che urtavano l'uno contro l'altro e il respiro affannoso dell'uomo in camice.
    Il corpo sulla barella è immobile; il volto è pallido, gli occhi chiusi. Quando venne scoperto e rimase nudo nella luce del neon, solo il lento sollevarsi del torace rivelò una traccia di vita. Con rapidi movimenti venne spostato sul lettino al centro della stanza e subito dopo vennero applicati gli elettrodi e serrate le cinghie di cuoio.
    Faceva freddo.
    L'uomo in camice spostò l'apparecchiatura accanto al lettino. Collegò gli elettrodi. Accese. La prima scarica durò circa venti secondi. Il corpo fu scosso da una serie di contrazioni violente. Gli occhi si spalancarono per un istante, poi le palpebre si richiusero a mezzo, lasciando intravedere solo il bianco della sclera. Quando l'uomo in camice spense, il corpo ricadde flaccido sul lettino. Poi, un'altra scossa, di quaranta secondi. Questa volta, la schiena s'inarcò e la bocca si spalancò nonostante il bavaglio di cuoio. Un urlo risuonò nella stanza. Un ululato.
    L'orologio sulla parete segnava le tre della notte. L'ora del lupo. L'uomo in camice spegneva e staccava gli elettrodi. Si voltò verso la parete, mentre gli altri spostavano il corpo, nuovamente immobile, sulla barella. Tornò a girarsi solo quando sentì il cigolio della porta che si chiuse. Non c'era più nessuno con lui. Si avvicinò al lettino: sul lenzuolo, una chiazza di sangue fresco. Una ferita alla bocca, un morso alla lingua, malgrado il bavaglio infilato tra i denti. Ed ecco che, ora, toccava a me.
     
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    dammi tempo che preparo il post
     
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    Quella mattina, il dottore si era destato da un sonno agitato. Madido di sudore, aveva ancora impresso nella mente, come marchiato a fuoco, quel sogno che ricordava la sua infanzia, quando se ne andava in giro a catturare animali per poi sezionarli e torturali, coltivando i suoi strambi esperimenti, nel seminterrato della sua casa malridotta, caduta a pezzi da prima che nascesse. Era sempre stato così, prima si limitava a sezionare lucertole, scoprire i modi più cruenti e curiosi per farle morire. Ad una aveva accecato gli occhi, guardandola mentre periva per il sangue perso, ad una aveva mozzato le zampe, osservandola mentre si contorceva in preda al dolore. Ma le lucertole non gli erano bastate. Aveva proseguito con gli scarafaggi, poi le rane, le galline e i gatti. In un certo periodo, aveva l'insana convinzione che ad un essere potessero essere assemblati arti di altri animali. Così aveva sezionato una rana, tentando di sostituire la sua lingua con quella di un gatto; poi aveva sostituito gli occhi del gatto con quelli del gallo. Aveva persino provato a sostituire le ghiandole della rana con quelle della gallina, sperando di ottenere una gallina gracidante o qualcosa del genere.
    Fu tutto inutile. Quelli erano solo sfoghi malati di un bambino solo e altrettanto malato.

    Che sogno del cazzo...

    Fu il commento del bambino, diventato uomo, che cacciò via quei pensieri con una scrollata di spalle, mentre si asciugava il sudore dalla fronte con la manica del camice. Cercava di non toglierselo mai quel camice, era così dedito alla sua carriera, anche se non era certo ciò che si era aspettato quando gli proposero di divenire medico. Nulla da sezionare, nulla da creare o sperimenti con il quale liberare la sua fantasia. Gli avevano detto che avrebbe aiutato le persone, le avrebbe guarite, e lui aveva accettato senza rifiutarsi. Aveva smesso con gli esperimenti ma la sua vena folle non si era affatto placata, per questo era così contento di indossare quel camice quel giorno, quando si presentava un'occasione del genere.
    Al solo pensiero un sorriso malato gli deformò il volto mentre abbandonava il suo studio lugubre e sinistro e si dirigeva al sesto piano, nella sala numero sei del sesto reparto. Gli avevano fatto trovare un uomo su un lettino, già legato e imbavagliato, il corpo nudo e pallido sotto la luce bluastra. Erano circa le tre del mattino, quella si che era l'ora esatta per quel genere di esperimenti.
    Subito, il medico si adopera con i marchingegni: attacca elettrodi al corpo, vi infila aghi e somministra pozioni di sua creazione, accende e spegne le cariche mentre il corpo dell'uomo si contorce e si rilassa. Poi ulula, proprio allo scoccare delle tre. Un sorriso malato riempie il volto del medico, un suo collega appunta qualcosa su un libretto bianco come un teschio, l'espressione del volto contrariata, quasi spaventata da ciò che sta vedendo. Guardano tutti quanti con diffidenza il dottore, ma a lui non importa. Il resto dello staff trasporta via il corpo dell'uomo, lo mettono su una barella e scompaiono dietro la porta sulla sinistra, parecchio grande, usata solo dai medici. L'uomo rimase solo nella stanza, fissando le macchie di sangue sul lettino dalle lenzuola bianche e candide. Improvvisamente sentì qualcosa di estraneo, un cigolio. Alzò lo sguardo e quello che si trovò davanti fu un ragazzo dai capelli bianchi e gli occhi violacei colmi di lacrime. La mano portata al petto e l'espressione supplichevole.
    Questa volta, il sorriso del medico si raggelò.

    Non è un po' presto per andartene a zonzo, ragazzino? Ma certo, devono averti lasciato ad aspettare e te ne sei andato via di testa tua?

    Con passo fermo, il dottore si avvicinò al ragazzo, guardandolo dall'alto della sua elevata altezza. Gli occhi vitrei e folli squadrarono il giovane, mentre un ghigno malato iniziò ad affiorare sulle sue labbra. Quel ragazzo era solo, chi avrebbe sospettato della sua scomparsa? Avrebbe potuto rapirlo, proprio in quel momento, avrebbe potuto... giocare.

    Tornò di nuovo serio, non era il caso di rischiare proprio quel mattino. Scostò il ragazzino, portandolo dentro mente si affacciava per il corridoio del sesto piano. Si guardò intorno ma non c'era nessuno. Come era possibile? L'uomo ci pensò un attimo, poi si rivolse al ragazzo, ordinandogli con freddezza:

    Sta fermo qui, torno subito.

    E si incamminò velocemente per il corridoio bianco, mentre i suoi passi risuonavano sordi. Entrò in qualche stanza, trovandola vuota. Iniziava a spazientirsi. Come era possibile che si presentasse un ragazzino senza nessuno ad accompagnarlo? Finalmente, sentì qualcuno avvicinarsi, un uomo che conosceva, dai capelli corti e scuri e l'aria malaticcia. Il dottore si fermò davanti al collega che lo salutò garbatamente, anche se sembrava volersene andare il prima possibile. Ma dopotutto, nessuno voleva stare troppo tempo in compagnia del Dottore.

    ... Bisogno di qualcosa?

    C'è un ragazzo, nella numero sei. Non so cosa voglia né chi sia ma ha l'aria di stare male. Ne sai qualcosa?

    A quelle parole, la diffidenza dell'uomo si tramutò in professionale preoccupazione. Subito scosse la testa ma si apprestò a tornare sui suoi passi, invitando l'altro a seguirlo.

    Megumi!

    Chiamò a bassa voce, affacciandosi per il corridoio che si intersecava da destra. Si voltò una donna bassina e dall'aria severa, scrutando sospettosa prima l'interlocutore, poi il Dottore dietro di lui.

    Dimmi pure, Goro.

    C'è un ragazzo, nella stanza numero sei. Sai chi sia? Ti sono arrivate segnalazione di un paziente appena giunto?

    No... ma è strano... Andrò a chiedere in direzione, ma penso sia il caso di curarlo nel frattempo, se sta così male...

    Me ne occupo io allora, ti ringrazio.

    Megumi sparì alla loro vista, andando verso le scale, diretta in direzione al piano terra. Goro si voltò, facendo spallucce al collega che non aveva smesso di fissare la scena con sguardo vacuo, come se tutto ciò non gli appartenesse affatto.

    Vuoi che me ne occupi io?

    No. Faccio io.

    Rispose secco il dottore, facendo dietro front e abbandonando il collega, confuso, in corridoio. Aumentò il passo, verso la stanza lasciata poco prima. Al suo ritorno, trovò il ragazzo ad aspettarlo come gli aveva detto. Chiuse la serratura della porta a chiave, senza neanche rendersene conto. Scrutò quel ragazzo con occhi bramosi, mentre tentava di apparire affidabile. Prese subito a sterilizzare i suoi affilati e strani strumenti da lavoro, sotto gli occhi del ragazzo.

    Che cosa ti è successo? Nessuno sa chi sei, qui. Se mi dici che problema pensi di avere posso fare qualcosa.

    Asserì mentre affilava il suo amato bisturi, immaginandolo scorrere sulla pelle del ragazzo. Un tic fastidioso all'occhio lo costrinse a voltarsi dandogli le spalle, mentre reprimeva una risata.

    Ma fai presto... Non mi piace aspettare...
     
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    I medici mi scortarono poco prima della porta che rimembrava l'oscurità più totale celando qualcosa che, all'apparenza, mi era stato nascosto. Se la diedero a gambe levate sussurrandomi qualcosa nell'orecchio che non riuscii bene a decifrare ma due parole intuii: -porta e inferno-. A collegare quelle due parole non ci avrei messo molto se non fosse per quell'atmosfera cupa che mi circondava, sembrava di essere caduto in una trappola preparata ad'hoc proprio per i neofiti che, come me, si apprestavano a mettere piede in quel manicomio. Pochi metri separavano me dall'oblio ma inizia a scrutare il territorio circostante.
    Il corridoio era affollato di ombre. Sui lati, le porte socchiuse della lavanderia e del bagno; in fondo, spalancata, quella della corsia. Lì il corridoio fa un gomito: oltre, ci sono le stanze per l'isolamento, dove tutti evitavano di mettere piede. Erano vuote, a primo impatto, eccetto la nove, sempre con la porta chiusa, sbarrato anche lo spioncino con la grata. Celava qualcosa che, era meglio per me, evitare di venirne a conoscenza.


    [..]

    Mi scostai per far passare i medici, con la schiena inarcata a causa della barella, intenti a portare il paziente, in fin di vita, in sala rianimatoria. Uno di essi lasciò la presa e bisbigliò qualcosa ai colleghi, così si diresse nel corridoio che poco prima avevo attraversato, un corridoio muto. Un passo dopo l'altro, la mano che strisciava contro la parete, per farsi compagnia. A questo punto doveva oltrepassare le porte accostate della lavanderia e del bagno. S'arrestò, il respiro affannoso: le lampade notturne vacillavano, e i battenti dischiusi proiettavano ombre taglienti, ombre che sembravano vive. Staccò la mano dalla parete, chiuse gli occhi e fece tre passi di corsa, attento a non farsi sentire. Ecco: ce l'aveva fatta. Nessuno si sporse da quelle stanze; nessuna mano l'aveva sfiorate.
    Caparbia, tornò indietro, aprendo la porta della lavanderia. La grande vasca per il bucato luccicava nella luce della luna. Riprese il cammino, più tranquillo, fino alla corsia. Sporgendo la testa oltre il battente, vide le donne a letto, immobili. Iniziò a contarle: una, due, tre, quattro...dieci...venti. C'erano tutte. Dormivano davvero? Nessuna che passeggiava tra i letti? E di quelle legate, nessuna che si divincolasse?
    Entrò nella camerata, il passo leggero. Non le voleva svegliare, sarà una notte tranquilla. E poi, le facevano pena quelle donne di ogni età, dai capelli aggrovigliati o rasati per i pidocchi. Strano: avevano tutte la testa coperta dal lenzuolo. Tutte quelle non contenute dalle cinghie. S'accostò ad uno dei letti: la luna scivolava come latte dalle finestre, disegnando sulla coperta una rete di sbarre. Poi scomparve, e già all'esterno, lento, inizia il tintinnio della pioggia. Piove sempre più fitto e le gocce colpiscono le lastre di metallo che ombreggiano le finestre. Continuava a piovere. Forse pioverà per sempre.


    Mi degnai di entrare nella sala stando faccia a faccia col medico, ci scrutammo entrambi intenti a capire cosa non andasse nell'altro. Io vivevo in un mondo, lui in un altro, differente dal mio, poco ma sicuro. Sembrava che quegli attimi non terminassero mai ma ecco che prende parola.

    Non è un po' presto per andartene a zonzo, ragazzino? Ma certo, devono averti lasciato ad aspettare e te ne sei andato via di testa tua?

    Mentre pronunciava queste parole, si avvicinava pian piano a me scrutandomi, nuovamente, dall'alto del suo ego quantomeno terrificante. Mi poggiò una mano sulla spalla mentre rivolgeva lo sguardo altrove, in avanti.

    Sta fermo qui, torno subito.

    Ascoltavo alla lettera i suoi consigli, chinandomi, nuovamente, al suo ego. Era circondato da un alone di immortalità che partiva dal pelo più rizzato dei suoi capelli per finire all'alluce dei piedi.
    Mi sedetti su una sedia girevole prendendo in mano qualche attrezzo sparpagliato qua' e là. Li classificai: aspiratore, bisturi, pinze, specchietto, specillo, trapano e infine, proprio attaccato sulla parete, una chiazza di sangue rossa che rappresentava un occhio. Come? Nono. Fammi collegare. Mi alzai dalla sedia e arretrai di qualche metro intento ad osservare bene quel disegno. Sì, era una chiazza di sangue rossa che incideva un occhio.
    L'aria divenne gelida.
    Restai per qualche minuto immobile ad osservare quello spettacolo terrificante, entrò il medico di soprassalto e, pur intuendo a cosa facessi riferimento, si parò dinnanzi a me ingaggiando dei gesti intenti a distogliermi da quella, beh, chiamiamola opera. Mi sfregai le braccia socchiudendo gli occhi. Mi sovvenne la pelle d'oca. Cosa stava accadendo?


    Che cosa ti è successo? Nessuno sa chi sei, qui. Se mi dici che problema pensi di avere posso fare qualcosa.

    Beh, dottore, stavo affrontando un ninja del Villaggio della Cascata, un certo Zhan, e ad un certo punto della battaglia, mi ha avvelenato. Quel veleno è entrato in circolo e mi consumava attimo dopo attimo fino a cadere per terra inerme.

    Prese a visitarmi. Io, immobile, lo guardavo con aria impaurita.

    Sa, dottore. Il silenzio con lei è così.. rumoroso.
     
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    Era così molte volte, ormai si era abituato a quella sensazione. Ogni volta che doveva curare, sentiva di voler rovinare. Cosa avrebbe dato per infilzare le carni del giovane, inciderle e sezionare e scrutare i muscoli e rimuovere le arterie; esportare gli organi e ricucire il tutto, magari imbottito di qualcosa, chissà. Doveva fare appello a tutte le sue forze e al suo buon senso per non cadere in tentazione, ma non era facile considerato che quello che aveva davanti poteva essere la vittima perfetta. Sconosciuto al resto del mondo, nessuno sapeva fosse lì; ma aveva già avvertito Goro e Megumi quindi non sarebbe stato semplice far credere loro che il ragazzo fosse sparito o se ne fosse andato. Ma il Dottore era sempre stato un bravo attore, avrebbe potuto fingere. Una voce nella sua testa gli suggerì cosa fare, era semplice, doveva solo immobilizzarlo e recidere le corde vocali, il resto sarebbe andato da se, una volta assicurato il totale silenzio da parte della vittima.

    *No, sciocco! Non va bene per niente così... Non deve andare come l'ultima volta...*

    Il Dottore si riscosse dalla sua meditazione, voltandosi verso il ragazzo con sguardo perso nel vuoto, tentando di ignorare quell'espressione così indifesa da fargli venire voglia di dar sfogo alle sue più perverse e lugubri fantasie. Posò i suoi strumenti, afferrando una sedia in un angola e spingendola verso l'altro per farlo sedere, mentre chiedeva cosa fosse successo.

    Beh, dottore, stavo affrontando un ninja del Villaggio della Cascata, un certo Zhan, e ad un certo punto della battaglia, mi ha avvelenato. Quel veleno è entrato in circolo e mi consumava attimo dopo attimo fino a cadere per terra inerme.

    Dalla sua risposta si evinceva che comunque aveva il controllo di se stesso, non era in preda allo shock o cose simili, decisamente un bene. Il Dottore ascoltò distrattamente la spiegazione, era più impegnato a preparare degli antidoti riposti malamente su uno scaffale. Il fatto che quel ragazzo fosse rimasto avvelenato in una normale combattimento non lo stupì, non era così inusuale. Sospirò a bocca chiusa, scrutando il pavimento bianco e lucido, perfettamente pulito, come volevano le norme igeniche dell'ospedale.

    Stenditi.

    Ordinò secco il Dottore mentre il ragazzo ubbidiva. Il suo corpo appariva ancora più pallido sotto la luce del neon e gli occhi vigili ed esperti del Dottore scrutavano la ferita che aveva immesso il veleno nel suo corpo. Non era nulla di grave ma era meglio rimuoverlo il prima possibile, prima che avesse provocato seri danni al sistema circolatorio. L'uomo si prese il suo tempo, toccando con dita esperte la ferita e osservando il colorito intorno ad essa, in silenzio. Il ragazzo sembrava decisamente a disagio.

    Sa, dottore. Il silenzio con lei è così.. rumoroso.

    Il Dottore si fermò, osservando dritto negli occhi il ragazzo. Per un attimo restò in silenzio ma poi un sorrisetto gli incurvò le labbra pallide. Prese a controllare nuovamente le condizioni del corpo del ragazzo, anche se si sentiva rallegrato, adesso.

    Non sei il primo che me lo dice... Ma ti ringrazio, ho sempre trovato questa affermazione altamente azzeccata, mi fa piacere in un certo senso...

    Ammise a bassa voce, in tono pacato per una volta, dando però chiaro segno che non gradiva una risposta di nessun genere. Non era il tipo che parlava molto il Dottore. La visita fu più breve rispetto a quelle alle quali era abituato, ma durò comunque una ventina di minuto, giusto il tempo di capire bene quale fosse il problema.

    Il tuo avversario... ha usato del comune veleno rettile...

    Disse ad un certo punto, allontanandosi dal lettino e ordinando al ragazzo di togliersi la maglietta. Si concentrò un attimo, impastando il chakra a dovere e preparandosi all'operazione. Si riavvicinò, sistemando la luce sopra il ragazzo e posizionando le mani perfettamente sopra la ferita.

    Sto per cominciare... mmm... come hai detto di chiamarti?

    Dopo la risposta, il Dottore iniziò l'operazione. Per prima cosa immise il suo chakra fin dentro il corpo del ragazzo, un'operazione semplice ma che richiedeva un grande controllo se non voleva andare a danneggiare gli apparati interni del ragazzo. L'operazione da sola durò una dozzina di minuti, finché non ne ebbe convogliata una quantità tale da poter lavorare in santa pace. Individuò il veleno estraneo e lo seguì muovendo il chakra, finché non riuscì a raggiungerlo ed accerchiarlo. Anche quello era un passo importante perché permetteva di bloccare il suo percorso. Proseguendo per quasi un'ora, il procedimento successivo fu quello di inglobare ogni singola goccia di veleno e riportarlo in superficie, lasciando il corpo libero da esso. Senza interruzioni, il Dottore trascorse quasi novanta minuti in piedi,davanti al ragazzo con le braccia protese in avanti, nella più totale concentrazione, in modo che Genoaku non si accorgesse neanche di cosa stava accadendo. Finalmente, il Dottore ripose il veleno in uno specifico contenitore e si premurò anche di chiudere la ferita del ninja, anche se avrebbe lasciato una piccola cicatrice sul suo corpo.

    Con questo dovrebbe bastare... Sei libero di andartene, adesso...

    E si allontanò verso la porta, aprendo la serratura e tenendola aperta, mentre fissava il ragazzo.

    è il tuo ultimo post quindi puoi tornare a casa, dopo faccio il mio e ti do l'exp
     
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    Non potete fare affidamento sui vostri occhi se la vostra immaginazione è fuori fuoco. -Twain

    Diceva così, un uomo, che diffidava dai canoni conformisti e una concezione, tutta sua, aveva della vita. Così non si rispecchiavano in quegli ideali, i medici di quel manicomio che tanto erano abituati a visioni od allucinazioni. Proprio un infermiere, lì, -azzarderei nel ritenerlo audace- si cimentò in una prova che Dio stesso aveva considerato fuorilegge: si addentrò in quel che era un rifugio per menomati.
    La donna nella stanza numero nove era rimasta sveglia tutta la notte, fissando la parete immersa nell'oscurità. E per tutta la notte aveva sorriso. Ora il mattino entrava lento e grigio dall'unica finestra, rischiarando gli angoli bui. La donna attendeva, accovacciata sul letto; indossava le sue scarpe più eleganti e un abito blu, da cocktail, scelti nel grande baule aperto accanto alla porta. Talvolta si avvicinava alla finestra, troppo in alto perché possa guardare fuori. Rimaneva per qualche minuto in piedi, le braccia abbandonate lungo il corpo, e infine tornava verso il letto.
    Non aveva orologio, ma sapeva che era ancora presto. Era il suo desiderio a renderla impaziente, lo stesso desiderio che le donava quel sorriso.
    Più tardi si destava, accostava l'orecchio alla parete. Continuava a sorridere.
    Ecco: ora sentiva.
    Sentiva che là fuori, nel parco, si muoveva il lupo. Se ne stava andando, perché doveva nascondersi, ma tornerà per finire il suo lavoro.
    Tornerà, tornerà. E lei sarà pronta, lì, ad attenderlo.
    Il cielo era coperto e gli alberi in parte spogli disegnavano ora linee nette ora linee imprecise contro il grigio. Poco discosto, il medico, osservava l'andirivieni della paziente per la camerata. Ella si accostava al muro sfregandosi sul sangue inciso sulla parete, accortasi di essere osservata da occhi indiscreti. Rivolge un occhio verso di lui a mo' di vipera avvicinandosi sempre di più verso lo spioncino intento a prendere l'anima di quel medico e portarla con lei nell'oblio. Scappa. Si reca così in una stanza dove viene soccorso dagli altri infermieri, si sdraia e, di tanto in tanto, gli si avvicina un dottore. Lo prende per mano e lo tampona la fronte con una pezzuola inumidita. Era immobile da ore, lo sguardo vuoto, perso ancora negli occhi della numero nove; solo talvolta trasaliva, e con le unghie smangiucchiate da bambina graffia la vernice giallognola del lettino. Non parlava, e un'unica lacrima le scendeva dall'occhio sinistro; una lacrima che si riformava non appena i medici la asciugavano. Una lacrima che, portava con sé, ricordi, che era meglio per tutti, celare.


    [..]

    Quelle parole scolpirono il cuore del medico come il martello fa su di un chiodo malandato, egli non esitò a riprendere parola, pur balbettando vistosamente.

    Non sei il primo che me lo dice... Ma ti ringrazio, ho sempre trovato questa affermazione altamente azzeccata, mi fa piacere in un certo senso...

    Aveva colto in pieno il significato di quelle parole, pur con qualche complicazione. Entrambi, non sapevamo perché ci avessero messo al mondo eppure, nel profondo del nostro cuore, eravamo convinti che, quel qualcuno, provasse forti sentimenti nei nostri confronti. Entrambi, avevamo perso qualcosa di prezioso che, purtroppo, non riuscivamo a ricordare. Ma, a mio parere, era meglio per tutti, avercelo tenuto nascosto.

    Il tuo avversario... ha usato del comune veleno rettile...

    Non riesco ad intendere se, tutto ciò, sia positivo o negativo.

    Quelle parole mi confondevano ma lui pareva ancor più confuso di me e, così, non accennò ad una risposta. Stringeva i denti, sembrava che qualcosa lo stesse trattenendo dal commettere una pazzia, voleva fare qualcosa per distogliere la mia attenzione da quell'incisione sul muro: vano. Tutto inutile, certe cose non si dimenticano facilmente, bensì rimangono impresse nella mente e accompagnano l'intera esistenza di un essere.
    Mi ordinò di togliermi la maglietta: obbedii senza esitare.


    Sto per cominciare... mmm... come hai detto di chiamarti?

    Genpaku Hoozuki, signore.

    Prese ad esaminarmi: immise il chakra fin dentro il mio corpo creando un solco di consistenza liquida che andò a spaziare nel mio torace. L'operazione durò poco più di dieci minuti e parve facile, perlomeno agli occhi di un inesperto come me. La sequenza di azioni fu la seguente: estraeva il veleno, lo portava nella 'bolla' e lo riversava di conseguenza in una bacinella che, senza ausili da parte di terzi, veniva sciacquata a dovere e riportata sul bancone in legno. E così una seconda volta, e così una terza, e così una quarta.. e così una decima, finché non venne estratto tutto il veleno. L'operazione era conclusa, senza problemi.
    L'aria era pregna di sudore a causa del medico che, durante tutto il lavoro, non aveva fatto altro che sospirare focosamente, impaurito in caso qualcosa fosse andata per il verso sbagliato. Non aveva una grande reputazione tra i colleghi di lavoro, poco ma sicuro. Infine, prese parola.


    Con questo dovrebbe bastare... Sei libero di andartene, adesso...

    Voleva disfarsi al più presto di me, facile da intuire. Probabilmente, aveva paura di perdere il controllo di sé stesso e così, a causa del suo malato subconscio, agire di conseguenza su di me. Ma non era il momento di pensare a ciò, non potevo far altro che ringraziarlo.

    La ringrazio, signore. Ci rivedremo, chissà, in un posto che, sin da quando eravamo in grembo, preferivamo rimanere: l'inferno. Questo è un arrivederci.

    CITAZIONE
    Non puoi guarire dal passato. Non puoi nasconderti dal futuro. -Genpaku Hoozuki

    Ah, mi sono divertito! Brava, brava, brava :si2:
     
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    Si prova sempre una sensazione strana nel salvare una persona.
    Che sensazione dovrebbe essere? Felicità, forse, probabilmente ci si sente bene, come se fossimo una specie di Dio in grado di lenire i mali altrui. Ci si sente appagati nel vedere una persona riconoscente. Ma il Dottore non l'aveva mai vista allo stesso modo. Cosa c'era di bello nel salvare un'altra persona? Forse la consapevolezza, chissà quanto veritiera tra l'altro, che qualcuno lassù ti avrebbe ripagato? Esisteva davvero un Dio così misericordioso da ripagare ogni tua buona azione nella vita futura, quando il corpo non diventerà altro che un mucchio d'ossa e la tua anima sarà altrove? Il Dottore avrebbe detto che non esiste l'anima, avrebbe detto che siamo biologia e il nostro corpo cessava di vivere così come la nostra mente e volontà. Ma allora che senso ha vivere se si ha la consapevolezza di aver gettato la propria vita al vento? Che senso ha vivere per poi non ottenere nulla? Per questo al Dottore non interessava degli altri, lui pensava solo a se stesso e ai suoi istinti malati che lo portavano a trattare gli esseri viventi come macchina d'assemblaggio pronte per essere sezionate, perfezionate e mischiate tra loro.
    Quando ritrasse le braccia indolenzite il ragazzo si tirò su a sedere, rivestendosi. Genpaku aveva detto di chiamarsi. Non era un ragazzo come gli altri, il Dottore l'aveva capito fin dal primo momento, anche se non avrebbe esitato ad aprirlo e giocare con i suoi organi. C'era qualcosa in quegli occhi, avevano la tipica durezza di chi è stato costretto a crescere prima del tempo. Il Dottore scosse la testa allontanandosi, andando a sistemare le fiale contenenti il veleno nello scaffale, le sarebbero state utili per i suoi esperimenti, faceva sempre comodo un po' di veleno. Con un sospiro, si avvicinò alla porta, facendo scattare la serratura e tenendola aperta per permettere a Genpaku di uscire. Non appena il ragazzo gli fu vicino, disse delle parole che difficilmente il Dottore avrebbe dimenticato, parole che nessuno gli aveva mai confidato prima.

    La ringrazio, signore. Ci rivedremo, chissà, in un posto che, sin da quando eravamo in grembo, preferivamo rimanere: l'inferno. Questo è un arrivederci.

    Fu l'ultima volta che vide il ragazzo e quella frase fu l'ultima che ascoltò in vita sua. Qualcosa si mosse dentro di lui quella mattina così sinistra e solitaria. Quel ragazzo sapeva, conosceva il vero Inferno. Eppure non era come lui. In ogni vita, c'è chi cura e chi viene curato, e il Dottore, nonostante sapesse curare, non era mai stato curato. E allora capì gli errori che aveva commesso, capì di aver sprecato la sua vita a rifugiarsi nel suo mondo malato, odiando tutto ciò che era al di fuori. Capì troppo tardi di essere lui stesso l'unico fautore della sua rovina. Era ingordo di rancore e divorava ogni cosa. Quella mattina restò solo, e divorò anche se stesso.

    Grazie caro :asd: Direi che ti prendi un 33 e puoi andare, sei guarito :tada!: Intanto aspetto qualcuno che dia l'exp anche a me :si2:
     
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