Simulacro nero

P.Q. Carcere Vindice

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1.     Like  
     
    .
    Avatar

    Senior Member

    Group
    Mukenin
    Posts
    13,474
    Location
    Galassia Kufufu

    Status
    Anonymous
    In fase di elaborazione


    .:Il cammino del silenzio:.

    tumblr_mzfrieoyNy1rqxxrao1_500


    Nessuna luce risplende in questo luogo, una situazione di completa stasi che ha avvolto questo nuovo mondo. Ai confini, in una terra senza nome, dall’eclissi di sole perenne che brucia tutto attorno, baciando di nero persino l’aria. Il tempo pare essersi fermato, il rumore delle catene è l’unico a squarciare il silenzio disumano di questo posto. Anelli di ferro nero che stringono il mio collo e i miei polsi, quel metallo freddo come il ghiaccio che squarcia la pelle aprendo ferite sempre più profonde. Il sangue che scorre dal mio corpo lascia ricordi di sé sul sentiero, cani scheletrici posano le loro lingue colanti di bava sui ciottoli, assaggiando avidamente quelle gocce cremisi e impure.
    La totale perdita di energie, il diniego del chakra di apparire al mio comando e il fatto di aver lasciato alle mie spalle la lucidità mentale, hanno accompagnato la facile marcia fino a questo posto desolato. Il viaggio attraverso il varco spazio-temporale mi è parso lungo quanto un’eternità, un tunnel vuoto e violaceo, estremamente famigliare ai Giudicatori il cui silenzio non è mai stato rotto da una loro singola parola, con quelle loro mani bendate e facce inespressive. Tutti identici ma allo stesso tempo diversissimi, snelli e alti come sequoie, agghindati come tigri delle nevi nei loro tessuti neri e bianchi. Cappellai e cocchieri, uomini di gran classe con i loro cappelli a cilindro e le loro spille d’argento. Posso vedere i loro piedi non posarsi mai, neppure al termine di quel viaggio dimensionale iniziato chissà quante ore fa, durante un evento che per molti dovrebbe essere storico. Kage, una nomina che evidentemente non mi calzava a pennello vista la rapidità con il quale ho dovuto mollarla, il solo nome mi stava già stretto come quella toga che avrei dovuto indossare per la cerimonia. Alla chiusura del varco i miei piedi caddero su un terreno bruciato, molto simile al un suolo vulcanico ma sostanzialmente freddo, ricoperto di una sottile patina vitrea e scivolosa. Una zona totalmente arsa, senza capo né coda. L’ampiezza dei miei passi era stata limitata da legacci di ferro, che limitavano i miei passi rallentando la marcia verso la prigionia. I miei occhi non avevano reagito bene a quel cambio di luminosità, tant’è che dovetti strizzare le palpebre e avvicinare la testa al braccio destro per renderli più asciutti possibile. Persino il vento, elemento a cui di solito non si fa caso, spingeva il mio corpo quasi a volermi maledire con la sua presenza.
    A piccoli passi eravamo giunti in una foresta di tronchi, la cui ricchezza si nascondeva probabilmente sotto massi dalle forme tondeggianti e scivolosi, quasi modellati da mani gentili e protetti da fitte reti di edera mista a rovi appuntiti. Spine senza rose, alberi senza fogliame e cuscini di muschio avevano il completo dominio del luogo, mentre corvi scheletrici e gracchianti ne rappresentavano in tutto e per tutto gli occhi.
    I Vindice non li degnarono di uno sguardo, uno solo di essi alzò il braccio come base d’appoggio per i volatili che non attesero un momento di più per recepire l’invito. Quegli artigli sbiaditi avevano stretto troppo la presa sui rami come piccole prede da sventrare per nutrire i propri piccoli, due di essi spalancarono le loro ali piumate mollando il nido senza alcun ritegno. Volarono alti compiendo un cerchio nell’aria, evitando inoltre uno scontro rovinoso e in turbine di piume si lasciarono andare, appollaiandosi in sincronia sulla veste del Vindice. Mi osservarono per tutto il tragitto con quei loro rubini luminescenti, commentando la mia presenza solo con qualche verso smorzato, voltarono i loro crani solo una volta giunti alla riva di un fiume. Ivi erano costeggiate cinque piccole imbarcazioni simili a gondole, il legno pareva decomporsi difronte ai miei occhi per la presenza di alcuni vermi striscianti dalla pelle lucida.

    « Ed ecco verso noi venir per nave
    un vecchio, bianco per antico pelo,
    gridando: "Guai a voi, anime prave! »



    Hai mai sentito queste parole? Sono curioso.

    « Egli, vegliardo, ma dio di cruda e verde vecchiaia,
    spinge la zattera con una pertica
    e governa le vele
    e trasporta i corpi sulla barca di colore ferrigno. »



    Non credevo di possedere la parola in quel contesto, e ne approfittai per rispondergli nel mondo che più ritenevo opportuno riposandomi un attimo nell’osservare il corso d’acqua difronte ai miei occhi. Uno di loro era abbastanza impaziente e tirò la catena in modo brusco, ordinandomi di salire sulla bagnarola centrale assieme al tizio con i corvi, l’ampiezza del fiume non era delle maggiori e anche in tutta quella oscurità potevo scorgere l’altra sponda. L’assenza di uomini e remi non mi sconvolse affatto, le gondole si mossero da sole senza distanziarsi le une dalle altre e seguendo sempre la stessa rotta, il corso d’acqua pareva aprirsi al loro passaggio generando flutti di scarsa potenza, perfetti per generare la forza necessaria per velocizzare il “legno”. Per quanto piacevole fosse quel viaggio, le emozioni chiare era pochissime: avevo vissuto di tutto e di più, ma in quel momento nella mia mente non vi era altro che confusione. Paura, stupore, tensione: tutte cose che avevo messo da parte inconsciamente.
    Di tanto in tanto il legno scricchiolava, passai la mano nuda sulla superficie ai miei piedi ma non feci altro che procurarmi un leggero dolore da scheggia sull’indice. Riuscii ad agguantarla tra i denti dopo vari tentativi, occupando tutto il tempo del viaggio in quell’operazione.

    « Me miserevole! Per quale varco potrò mai fuggire
    l'ira infinita e l'infinita disperazione?
    Perché dovunque fugga è sempre l'inferno; sono io l'inferno (...) »



    Raggiungemmo la riva, il terreno non era cambiato per nulla. Dovetti stringermi nelle spalle a contatto con il gelo, il vertiginoso calo della temperatura era la caratteristica di quel luogo. Tutti all’unisono pronunciarono quei versi, i due corvi ne imitarono le azioni senza però masticare la lingua nel modo perfetto. Rauchi versi vennero fuori dai loro becchi, un intruglio di termini senza capo né coda incomprensibili persino ai Vindice. L’unico termine che sapevano ben pronunciare era “inferno”, forse una coincidenza o forse un altro segnale da aggiungere alla lista.

    Inferno, inferno, infern!
    Falli smettere Maze, tra poco arriveremo a destinazione.

    Entrambi furono freddati dal gelo contenuto nelle parole del più alto, la cui voce pareva farli tremare come foglie. Il sentiero percorso, che pareva spezzare in due un’altura, si dissolse in cima e da lì le cose mi furono chiare. Sgranai gli occhi alla vista del panorama senza confini, una città labirintica estesa fino all’orizzonte del mondo. Da lì potei ben immergermi nella visuale di quella costruzione pentagonale e infinitamente grande, un intricato agglomerato di cunicoli, strade, piazze e dalle mura imponenti. Un blocco di granito di migliaia di tonnellate, costruito per opera di chissà quante braccia ridotte in schiavitù, custodito da cinque creature immani poste ai cinque punti della metropoli. Al centro di tutto vidi con chiarezza la loro base, una torre tanto alta da poter toccare il cielo, tagliando a metà l’eclisse con una protuberanza simile ad una lama. Pareva dotata di vita propria, dai suoi continui movimenti avevo la situazione che quella loro base nascondesse qualcosa al suo interno. Rimiravo le parevi contorcersi su loro stesse, rilassarsi e contorcersi nuovamente come il “cuore pulsante del mondo”. Tra me e quella interessante costruzione mancava davvero “poco”, erano trascorsi parecchi giorni e forse ne avrei impiegati altrettanti fino all’arrivo, potevo morire in qualsiasi momento vista la fame e la sete. Continuavo a scartare l’ipotesi di morire fuori dalla prigione, al 90% avevo il presentimento che loro volessero punirmi in un modo consono, o quella caccia perpetua durata anni e anni non avrebbe avuto senso.

    Al momento attuale abbiamo bisogno ancora di un giorno di marcia per raggiungere la città e altri tre districarci fino alla prigione.
    Non possiamo permetterci di far morire di fame il prigioniero, ci accamperemo una volta nelle mura.

    Fudo non parlò per tutta la durata del tragitto, non sapevo minimamente quali fossero le sue intenzioni né il perché di quella sua dichiarazione. Potevo fidarmi come non farlo, nutrivo solo una grande apatia verso la situazione ma il desiderio di ricevere risposte era più forte della fame. Per l’ennesima volta compii un passo in avanti, poi un altro ancora. Sentivo la “brutalità” delle catene attorno alla pelle, il dolore fisico non era nulla in confronto alla libertà che mi era stata portata via. Mancavano ancora delle ore prima di raggiungere il portale, chissà quante prima di poter dormire un po’. Speravo davvero di poter stendere la mia schiena su una branda, ero fisicamente ridotto a pezzi. Per quanto io osservassi e pensassi a qualcosa, quella era la prima volta che non riuscivo a trovare una via di fuga. Non avevo scelta: star al loro gioco era l’unica cosa che potevo fare in quel momento.


    Fine prima parte


    Edited by Yama™ - 14/4/2015, 12:18
     
    .
  2.     Like  
     
    .
    Avatar

    Senior Member

    Group
    Mukenin
    Posts
    13,474
    Location
    Galassia Kufufu

    Status
    Anonymous
    Passò un altro giorno senza che ci fermassimo, sentivo lo stomaco sotto sopra e la mancanza di acqua era letale. Cercavo di mantenere sempre la testa sollevata per evitare di cadere, sapevo che se avessi marciato a lungo in quello stato non avrei potuto evitare di baciare il suolo, sputandovi sopra altro sangue. Eravamo giunti a destinazione dopo non so quanti giorni di cammino. Non vi erano guardiani piazzati all’entrata, due colonnati alti il triplo di me si ergevano dalla nuda terra spaccando il terreno arido, e un grande portone di ferro battuto sigillava l’entrata della città granitica. Fu leggero il tocco sul metallo della gigantesca lastra nera, subito si aprì col suo rumore fastidioso e prolungato, un verso tipico di chi è stato giudicato degno di varcare le soglie dell’inferno e finire in uno dei cerchi, fustigato dalle punizioni e impossibilitato a reincarnarsi. Fortunatamente il mio destino non pareva essere quello e il senso di realtà non era svanito, seppur non ne sentivo più l’immenso peso. Non era una questione di “quanto tempo sarei sopravvissuto” ma “se ero destinato a farlo”. Marciavamo da giorni, così tanti e in una terra così lontana che ormai non sapevo più quanti fossero. Mai nella mai vita m’era capitato di essere così poco lucido ma il solo fatto di esser finito nelle grinfie del cacciatore, con quel metallo gelato ai polsi che inanimato eseguiva il suo compito, mi aveva reso un semplice pezzo di carne senza dignità. Un maiale ferito da una freccia e catturato per diventar parte dello stomaco di altri “maiali”, un uomo portato via dalla sua terra e dalla sua famiglia per servire un re tiranno. Insomma, sentivo di aver perso persino quella poca dignità guadagnata nel tempo. Quel grande blocco metallico s’aprì verso l’interno e ciò rese possibile vedere le condizioni del colosso pentagonale da una visuale migliore. Riprendemmo il passo con lo stesso andazzo ma questa volta in uno scenario nuovo e incredibilmente inverosimile per quella terra ricolma di morte. V’erano bambini di piccole età e donne, una più malridotta dell’altra. Non riuscivo a capirne minimamente il perché, la cosa strana era l’assenza di uomini o animali. Tutto sembrava malridotto, tutto era segnato di bianco e annesse sfumature, ma soprattutto non v’era la benchè minima traccia di sole. Quella poca gente che di tanto in tanto guizzava come un pesce si muoveva come un ratto e sfuggiva in un secondo come una lepre malconcia, rifugiandosi nei cunicoli maleodoranti. Sembrava non gli fosse permesso restare più di tanto sulla stessa via dei Carcerieri, forse per il terrore di ricevere il loro giudizio. Facce vuote, prive di speranza, bianche come l’ambiente in cui dormivano, mangiavano, defecavano e respiravano. Asetticità e morte, ecco cos’erano. Lo scenario fu praticamente identico per tutti e tre i giorni di marcia durante il quale potei riposare per poche ore, giusto per evitare di varcare la soglia dello sfinimento e cadere al suolo senza fiato, con la bocca amara e colma di saliva mista al sangue. Ripresa la marcia mi focalizzai ancora una volta su altri “ratti”. Scorrazzavano sui muri riunendosi come sciami d’insetti agli angoli dei cunicoli, alcuni senza scopo, altri per osservare quell’eclisse che li avrebbe resi ciechi, trasformandoli in talpe. Iniziavo a provare curiosità per quegli abitanti, che seppur reietti continuavano a sopravvivere e non ne capivo il modo. Lì non v’era cibo né acqua, e in casi normali questo avrebbe portato ad una rapida estinzione di quel popolo. E allora come poteva essere? Era uno dei tanti misteri di quella città seppur l’idea di “ruminarci” ancora scivolò dalla mia mente non appena la prigione mi parve difronte. Le mani scivolarono senza forza verso il terreno, il tintinnio delle catene fu l’unico rumore proveniente dal mio corpo. Battito e respiro si ammutolirono alla vista di quella “costruzione” i continuo movimento. I suoi movimenti in tutto e per tutto riconducibili a quelli di un cuore in costante movimento si contorcevano in modo spiraleggiante attirando le ombre della notte e fondendosi ad esse. La cima sempre più alta ma mai tanto da raggiungere quella eclissi, unica regina incontrastata di quella landa e fonte di maledizione per i “ratti” delle mura. Reti di tubature dall’aspetto di lunghissime vene si arrampicavano verso la cima, mappando la superficie di quella costruzione come un tappeto intrecciato. Sentivo odori diversi nell’aria e la loro intensità pareva solo aumentare ad ogni “pulsazione”, fumo intenso sprigionato dalle fondamenta. Il perché fossero posizionate in basso e non in alto era palese, ma probabilmente c’era dell’altro.

    Benvenuto nel luogo del tuo processo, Mukuro Hajime. Benvenuto nella fortezza vivente dei Vindice.


    Inevitabilmente sapevo quelle cose da giorni, ma all’uomo pareva non importare. Ciò che per lui contava era spedirmi oltre quelle pareti pulsanti, giudicarmi e assegnarmi la pena da lui ideata. Non v’era altro che potesse soddisfare meglio lui e anche gli altri, lo si intuiva dai loro movimenti e dal tono delle loro parole.
    Frugarono sotto le loro cappe con molta diligenza, e dall’angolo remoto di quegli stracci vidi tirar fuori delle chiavi, chiavi dalla forma singolare e dal materiale altrettanto unico. Sembravano fatte di ossa, ma sia che fossero umane o meno non mi riguardava. Insieme usarono quelle chiavi nel modo più ovvio, allungando poi la mano in direzione della parete, appoggiandovi il palmo per completare l’opera. Un grande intreccio di linee e simboli iniziò a propagarsi dai loro corpi e in poco tempo almeno la facciata principale del carcere si tinse di sigilli cremisi, determinando l’apertura della tanto agognata prigione. Pian piano la parete andò ritirandosi a partire dalle serrature, e quella superficie originariamente piatta cominciò a “scomporsi” in tanti piccoli cubi. Fu l’unico momento in cui l’enorme prigione rallentò le sue pulsazioni, seppur non ci volle molto prima che tornasse allo stato originale: ci vollero pochi istanti prima che i mattoncini tornassero al loro posto, “cicatrizzando” quello squarcio. Era semplicemente incomprensibile: tutto quello che avevo visto da pochi giorni a questa parte non rientrava nella mia logica, non riuscivo a comprenderne le meccaniche e sicuramente non ci sarei arrivato nell’immediato. Non avevo informazioni e il semplice tentativo di cercarne qualcuna era invano. Tutto ciò che vedevo veniva immediatamente sovrastato da altre informazioni, ma per quanto tentassi di elaborare tutto in maniera rapida, non mi era concesso il tempo né il privilegio di terminare il mio compito.
    All’interno, la prigione non aveva grandi particolarità che la contraddistinguessero dalle altre, ma anche lì vi erano le tubature che avevo visto all’esterno e tutte parevano provenire dal centro. Percorrevo il lungo corridoio non notando nulla di interessante. Il rumore dei passi sul mattonato umido rimbalzava tra le pareti dell’ambiente chiuso, mentre alcune gocce d’acqua picchiettavano sulla superficie dei tubi estinguendosi su di essa. Il corridoio non presentava delle celle ma era soltanto il percorso attraverso il quale poter raggiungere un padiglione centrale, i cui colori spiccavano subito all’occhio. Rosso, bianco e nero: queste le tonalità dominanti. Una enorme gabbia per uccelli vista dall’interno, il cui fondo a scacchiera simboleggiava il piacere dei Vindice nel giocare con le proprie pedine. Vista la loro passione per la caccia e l’immensa dedizione al lavoro, quello poteva essere l’unico modo per punire le prede che mai erano riuscite ad evadere. L’altra particolarità di quella zona era l’aspetto luminoso che rendeva possibile distinguere bene tutte le forme architettoniche, ma quella pareva l’unica parte dell’intera struttura ad essere illuminata.

    I, scendiamo.
    Ho afferrato il concetto.

    Non vi fu bisogno di parole superflue; lo stesso identico procedimento di apertura delle porte venne applicato anche sul pavimento, i cui ingranaggi dormienti ripresero a funzionare. Ormai era diventato palese che l’unico metodo di evasione dipendeva da quei meccanismi magici e da quelle chiavi e che alla base di tutto ciò vi erano i loro utilizzatori.

    .:Anonymous:.


    Una porzione di pavimento si distaccò dal resto. Realizzai di trovarmi su una piattaforma mobile in grado muoversi verticalmente e raggiungere diversi piani, tutti numerati e estraniati dagli altri. La piattaforma aveva tempi di velocità fissi e molto lenti, ma secondo un criterio preciso. Ogni piano vedeva prigionieri le cui colpe avevano un peso diverso e il tempo di percorrenza serviva a dimostrare ai nuovi arrivati l’inespugnabilità della fortezza e a destabilizzarli mentalmente. I deboli sarebbero impazziti al sol pensiero di scendere in un livello più basso, più tetro e più angosciante rispetto agli altri. Era uno dei tanti “metodi di insegnamento ed epurazione” dei Vindice, che dimostravano non solo di essere dei mastini feroci ma anche dei domatori esperti, ricoprendo due ruoli in maniera eccelsa. Sette i piani sotterranei, sette i loro guardiani. Tutto era numerato alla perfezione e all’origine stessa di quel tutto vi erano loro, con le loro leggi e i loro metodi. Continuavo a sentire il rumore della piattaforma che strisciava contro le pareti, il suono di una pietra che ne raschia un’altra innalzando sbuffi polverosi e facendo tremare l’intera struttura. Un suono misto ai latrati dei cani sistemati in gabbia senza cibo né acqua, mentalmente instabili all’idea di doversi sbranare tra loro per poter sopravvivere qualche giorno in più. In quella prigione tutto ciò che l’umano tendeva ad evitare si presentava più forte: l’oscurità, il dolore, il cannibalismo. Età, sesso e provenienza non facevano differenza tra quelle sbarre, essi venivano unicamente catalogati secondo la gravità delle loro pene. E non v’era motivo di escludere i concetti che i benpensanti tendono a rinnegare. Lì, tra insetti, muffa e ossa, gli incesti, gli aborti e i suicidi erano all’ordine del giorno proprio come lo erano le catture.
    E finalmente fu a quel punto che, nella più totale freddezza del viaggio e la statica osservazione delle cose, la prima parte del racconto di quel castigo ebbe inizio.


    Continua


    Edited by Yama™ - 11/3/2016, 17:39
     
    .
  3.     Like  
     
    .
    Avatar

    Senior Member

    Group
    Mukenin
    Posts
    13,474
    Location
    Galassia Kufufu

    Status
    Anonymous
    Mukuro Hajime, in arte Signalis. Come avrai ben visto dai prigionieri e come avrai ben intuito, qui non facciamo distinzione tra sesso, età o provenienza. Questa prigione è nata secoli fa e si basa su una serie di criteri che tengono conto di un solo fattore: la pena. “La legge è uguale per tutti” direbbero la maggior parte delle persone. Beh, in un certo senso è vero ma al tempo stesso non è uguale la pena. Qui non esistono trattamenti speciali dal punto di vista dell’individuo, qui conta unicamente quanto il peso delle proprie azioni vada a destabilizzare l’ordine del mondo. La prigione è divisa in sette piani tutti immersi nelle profondità della terra e divisi fisicamente dagli altri, non avrai l’occasione di ascoltare i lamenti di chi sta sotto o sopra di te, data la locazione della tua cella. Inoltre ci troviamo in una valle sperduta agli estremi confini del globo, oltre le zone artiche e lontani anni luce dalle terre ninja. Immagino ti sarai fatto molte domande su quei ratti lì fuori, ma non ti consigliamo di pensarci molto, non vorremmo diventassi come loro.

    La frase finale rappresentò un po’ un controsenso per l’intera situazione. Erano evasi o semplice “immondizia”? Psicologicamente domati o impazziti da soli? Aggiunsi quell’altro dubbio alla lista e continuai a scendere per altri due piani, guardando sui muri i giochi di luce delle fiaccole ardenti. IL calo progressivo del numero dei prigionieri aveva lati positivi e lati negativi: da una parte v’era la possibilità di godere di un silenzio assoluto nell’oscurità totale, consci però dell’improbabilità di poter riemergere. Se ai piani alti la possibilità di uno spiraglio di luce era scontata, oltre il terzo la stessa opportunità calava drasticamente. Dato che ormai eravamo quasi oltre il quinto, cominciai a percepire la pesantezza data dalla scarsità d’aria; per un momento mi ritornò in mente la storia di un libro, proveniente da terre straniere, sul percorso di alcuni uomini nelle profondità della terra. Avrei realmente voluto viaggiare verso il punto più profondo e accessibile ma non in quell’occasione e senza le catene ai piedi. Non mi ero mai pentito di ciò che ero stato in grado di fare negli ultimi anni: era solo tutto molto strano. Strano perché le decisioni, il dolore fisico, le battaglie e persino molte delle emozioni provate in quegli anni erano legate ad un mondo che era stato in grado di accogliermi e buttarmi ad una velocità incalcolabile. L’amarezza per quei prigionieri era nulla in confronto a quella che provavo verso le nuove leve. Non sarebbero mai stati in grado di percepire tutti i veri aspetti di quel mondo superficiale, e pur negando la loro ingenuità, avrebbero continuato a sfruttare il fantomatico potere derivante da quello stile di vita valutandolo come un mezzo, unico e perfetto, in grado di soddisfare a pieno i loro desideri.

    Capisco come possa sentirsi uno come te, buttato via e poi ripreso al solo fine di portare avanti il sistema. La maggior parte dei prigionieri si sente allo stesso modo, loro sono solo una grande toppa usata per coprire le imperfezioni di un abito. Ma gli abiti vengono rimpiazzati velocemente, in alcuni casi vengono buttati in massa dopo una cernita priva di criterio. E’ questo lo scopo della prigione inespugnabile Vindice: un enorme secchio della spazzatura in cui gli uomini vengono buttati via dopo esser stati strizzati come spugne.

    Sapete meglio di me che la mia pena non ha nulla a che fare con il mio recente passato, tutto ciò non c’entra nulla con i ninja. Siete carcerieri, non psicanalisti. Ho ripudiato il mio recente passato nello stesso momento in cui voi siete arrivati al palazzo, non vedo motivo di usare parole e metafore da quattro soldi per innalzare l’importanza di questa topaia.

    Nessuno di loro parve prenderla sul personale, continuarono a fissare il nulla fin al termine della discesa. L’ascensore si assestò con un brusco movimento, la pavimentazione e le mura tornarono nuovamente a formare una scacchiera perfetta e da lì in poi fui strattonato senza interruzioni, osservato solo dai corvi particolarmente affamati.

    Puoi ipotizzare e rinnegare quanto vuoi, sta di fatto che da oggi in poi questa sarà la tua vita. I tuoi privilegi, i tuoi poteri, la tua vita… Qui non conta nulla, conta solo la capacità di sopportazione della pena. Potrai urlare, ribellarti, dimenarti quanto vuoi e cercare in tutti i modi di evadere, ma imparerai a impiegare quelle forze per sopravvivere. L’unica cosa che potrà tenerti compagnia saranno i pochi sopravvissuti rinchiusi in questo livello, potrai crogiolarti quanto vuoi con loro e con le altre creature qui dentro.

    Intuii subito si riferisse a ragni, vermi e topi, le creature associate a questi luoghi nell’immaginario collettivo. Tuttavia non mi importava della loro presenza, o del tanfo dei cadaveri di vecchi rinchiusi o degli altri prigionieri: volevo solo far riposare la mente per almeno un giorno. Lo temevo. Temevo di poter perdere la sanità mentale che da sempre mi aveva contraddistinto e temevo di diventare come i manichini di stracci lì fuori. Le uniche probabilità di azione erano determinate da quanto in profondità sarei riuscito a scavare, perché ne ero certo ci fosse una via d’uscita, ne ero sicuro. Volevo capire cosa fare, volevo liberarmi dell’ombra di Signalis per tornare ad essere Mukuro, ero convinto che lì avrei trovato le mie risposte. Il tempo però mi era nemico, così come lo era l’ambiente e seppur avessi la necessità di riscoprire me stesso non potevo concedermi il lusso di crogiolarmi nel mio viaggio interiore.
    gilead_prison_cell_by_rusty001-d2y36jg
    Quando si dischiusero, le porte emisero solo un assordante rumore ferroso. Entrai al suo interno senza troppe pretese, ma sospirai a lungo e profondamente mantenendo la testa ben eretta per quanto male facesse ormai. La “griglia” si chiuse, la chiave nella serratura compì alcuni scatti. *Click*.

    Che sia di tuo gradimento, Nine. Avremo molto di cui parlare, ti conviene riposare a lungo questa notte.

    Capii ciò che volessero dire dal sorriso annerito di uno di loro e dalla tenaglia arrugginita e impugnata come un pugnale.
    Mi sedetti sull’unico giaciglio di paglia adagiato all’angolo del muro, traendo piacere dalla freddezza dello stesso. Osservai lo sporco e il sangue su mani e piedi, fortunatamente ero stato liberato dalla seccatura delle catene e potei allungarli. Sentivo il tormento delle escoriazioni su polsi e caviglie, il bruciore della pelle a contatto con l’aria e l’umidità mi stava logorando. Sollevai la testa in direzione del soffitto e sorrisi.. poi chiusi gli occhi, sperando che arrivasse quanto prima il mattino. Anche se in quello status non avevo la minima idea di come accoglierlo.

    Fine parte introduttiva, attendo exp :si2:
     
    .
  4.     Like  
     
    .
    Avatar


    Group
    Tetsu's Samurai
    Posts
    7,137
    Location
    The Spiral

    Status
    Offline
    Molto bella, prenditi il massimo del tuo grado!
     
    .
3 replies since 6/1/2015, 10:07   1442 views
  Share  
.